L’amore che resta

Esiste un dolore che resta. È quello di un amore a cui si è sopravvissuti. La giusta distanza, il mio nuovo romanzo, parla anche di questo. C’è una ragazza troppo giovane per capire la forza di un amore che sta per nascere quando il ragazzo che le infonde tanta gioia muore improvvisamente, e un uomo adulto che viene allontanato perché rimanere soli con certi sentimenti è troppo doloroso.

Tutto intorno appare un mondo del quale non si fa più parte. È come guardare una porta pesante che si chiude lasciandoti fuori, da solo. Iniziano i ricordi, quelli del prima: l’ultimo mattino, l’ultimo desiderio condiviso, l’ultima sciocchezza che aveva saputo strappare un sorriso. Poi, inizia il cammino lento su una corda tesa sopra il vuoto, in attesa che quel tempo necessario per elaborare un dolore fisiologico decida almeno di cominciare. Un tempo incomprimibile. Un tempo senza dimensione. Un tempo crudele che un giorno potrà impedirti di ricordare il suo volto, di sapere la consistenza esatta della sua pelle o di riconoscere il rumore dei suoi passi. E così, quando tutto questo comincerà, si percepirà che quell’amore non sostituiva niente e non ne esisterà mai un sostituto, sarà uno spazio caldo accanto al quale qualcun altro si potrà semplicemente accomodare. Qualcuno che avrà la fortuna di potersi offrire, di mettersi a nudo e di esprimere a modo suo lo slancio verso di noi, ma anche di viverci, di contraddire le nostre certezze, di farci rinascere come un bagliore accecante, un proiettile sparato da vicino. A quel punto spetterà a noi essere all’altezza, senza balbettii ed esitazioni, lasciando però che resti la certezza della provenienza di tutto quel calore che ci anima.

Intervista a Paola D’Accardi – Alchimisti di parole

Abbiamo intervistato Paola D’Accardi, traduttrice di Leopardo nero, Lupo rosso di Marlon James, per conoscere meglio il primo romanzo della trilogia Dark Star.

Come definiresti Leopardo nero, Lupo rosso?

Leopardo nero, lupo rosso lo definirei un romanzo di cappa e spada, l’unico problema è che raramente i personaggi indossano qualcosa in più di un perizoma e più che una spada usano accette e coltelli. Scherzi a parte per me è soprattutto un romanzo d’avventura che ha la particolarità di essere ambientato in un contesto decisamente inedito, infatti si svolge in un’Africa medievale, fantastica che però non è estranea alla storia e alla realtà quotidiana di quel continente, è un pastiche fantasy che mescola gli elementi più disparati creando un mix molto originale, e anche molto pulp con violenza e sesso espliciti. Un libro per certi versi spregiudicato e adatto a stomaci forti.

Protagonista del romanzo è l’Inseguitore, un cacciatore dal fiuto infallibile, che, accompagnato da un gruppo di mercenari, cerca un bambino scomparso. Che personaggio è l’Inseguitore?

L’inseguitore, per come lo vedo io, è un adolescente mai cresciuto: infatti lo conosciamo all’inizio del libro come un ragazzino arrabbiato, impulsivo, rancoroso, e tale quale lo ritroviamo alla fine del libro, quando è ormai un uomo adulto. Questo suo non cambiare mai e essere artefice delle proprie sfortune lo rende una specie di Sisifo, condannato a ricominciare sempre daccapo senza mai arrivare a una meta. Però in queste sue continue scelte sbagliate, il suo agire sempre d’impulso è l’elemento che rende imprevedibili le sue infinite avventure; il suo essere vittima di se stesso lo porta irrimediabilmente ad amare l’altro protagonista del romanzo, che è Leopardo nero.
E lui sì che è veramente uno spirito libero: è altrettanto impulsivo e irrazionale, però è uno che non si pente mai di quello che fa.

C’è una frase, una riflessione che ti è rimasta particolarmente fissata nella memoria?

Mi è rimasta impressa non una frase ma una scena: quando l’Inseguitore, svegliandosi nello scafo di una nave, intravede nella penombra un bambino con al collo la tipica catena degli schiavi.
L’immagine mi ha colpito per due motivi: uno, perché mi ha ricordato il brano di Amatissima di Toni Morrison, in cui la protagonista è in un capanno di legno e la luce che filtra attraverso le fessure le fa rievocare gli uomini e le donne prigionieri negli scafi di legno delle navi negriere; e poi mi ha colpito perché, nel tripudio di invenzioni fantastiche che è il romanzo, questa scena riporta bruscamente alla realtà, una realtà del passato che però non ha assolutamente smesso di farsi sentire nel presente. E la nave ha fatto andare il mio pensiero ad altre imbarcazioni, che oggi non portano schiavi ma attraversano il mare con un carico altrettanto disperato.

Toni Morrison, L’occhio più azzurro

Continua il nostro memoriale mensile di Toni Morrison, questa volta attraverso il primo romanzo che l’autrice ha pubblicato nel 1970, L’occhio più azzurro. La storia raccontata nel libro è quella di Pecola Breedlove, una bambina nera nell’Ohio del 1941. Povera, affidata a una famiglia che non è la sua, spesso derisa, Pecola comincia a sperare di essere diversa, di assomigliare alla ragazzina modello dell’epoca, perché in quella bellezza vede una possibilità di riscatto. E quella bellezza ha gli occhi azzurri. Il desiderio innocente di una creatura vulnerabile e sola segna l’inizio di una parabola tragica.

Pubblicato quasi cinquant’anni fa, L’occhio più azzurro è un libro che si legge ancora con pena e rabbia, perché pena e rabbia si provano nel leggere l’innocenza violata, la ferocia del forte verso il debole, l’avversione razziale, anche all’interno della stessa comunità nera. Una comunità che proprio negli anni Sessanta, attraverso battaglie ostinate (culminate con l’assassinio dei suoi leader come Martin Luther King e Malcolm X), stava riconquistando la propria dignità, contro segregazione e razzismo (di quegli anni è lo slogan Nero è bello). Si può immaginare l’accoglienza al libro della Morrison: sostanzialmente il silenzio. Ma naturalmente, la nostra autrice non ha certo smesso di scrivere e di raccontare storie vere che la maggioranza delle persone tendeva a nascondere in qualche armadio in soffitta. Fino a vincere il premio Nobel.

E allora, in questi tempi che sembrano altrettanto complicati, vale la pena leggere o rileggere il romanzo di Pecola Breedlove, che adesso dovrebbe essere felice di avere gli occhi neri.

“Il registratore di sogni” di Mariam Tarkeshi

«È questo, il trauma» ha scritto una volta Patrick McGrath. «L’evento sta sempre accadendo ora, nel presente, per la prima volta.»

Immagino che cominciare a presentare il proprio libro in questo modo, usando le parole di qualcun altro, non sia propriamente saggio, ma spero che me lo concediate.
Queste parole mi sono sembrate così accurate, quando le ho lette per la prima volta, che sono entrate per sempre a far parte del mio modo di pensare e di vedere il mondo.
“Il registratore di sogni” ne è una prova.
Una delle cose che più mi premeva raccontare, in questa storia, è il modo diverso in cui persone diverse affrontano i propri demoni. C’è chi non è in grado di sconfiggerli, chi non è del tutto conscio di averne e chi, in un modo o nell’altro, finisce per liberarsene, o per lo meno accettarli. Un “demone”, per come lo vedo io, può essere un vero e proprio trauma, certo, ma anche più semplicemente una dura verità, o una parte di sé che non si apprezza o che si rifiuta di riconoscere. In ogni caso, qualcosa che ci tormenta. Un dolore tanto intenso che è come se lo provassimo, appunto, “ora, nel presente, per la prima volta.”

Vi è mai capitato di stare così male da decidere di non dormire per paura di quello che avreste potuto sognare? Vi è capitato di svegliarvi con la certezza di aver fatto un incubo e, pur non ricordandolo, di portarvi dietro per il resto della giornata una brutta sensazione che non riuscite a comprendere? Forse il sonno è il momento in cui i nostri demoni ci perseguitano meglio. È il luogo privo di regole in cui possono fare quello che vogliono, liberi dalla costrizione della razionalità che, durante le ore di veglia, li tiene imbrigliati nel tentativo di proteggerci.

“Il registratore di sogni” è prima di tutto la storia di Nico e di come, tramite il registratore, impari cose di se stesso che finora ha sempre ignorato, ma è anche la storia dei personaggi che gravitano intorno a lui e che sembrano camminare in punta di piedi intorno ai propri segreti e alle proprie paure più recondite. Se c’è una cosa che lo studio delle lingue mi ha insegnato, è che c’è sempre un motivo se le parole hanno un certo aspetto, o un certo significato.
Per esempio, i tedeschi traducono la parola “sogno” con “Traum”.

TRINKETS, ora anche una serie originale Netflix!

L’amicizia non ha prezzo.

Tutto il resto, puoi rubarlo.

Dal bestseller di Kirsten Smith, co-sceneggiatrice di film cult come La rivincita delle bionde, 10 cose che odio di te ed Ella Enchanted, arriva TRINKETS, la serie TV originale Netflix disponibile dal 14 giugno.

Per vivere e sfogliare le avventure delle tre protagoniste – Moe, Tabitha ed Elodie – anche sulla carta, l’appuntamento è per il 18 giugno in tutte le librerie e store digitali.

TRINKETS è una brillante e disincantata storia di amicizia tutta al femminile: tre amiche che non potrebbero essere più diverse tra loro, troveranno nella cleptomania un punto d’incontro. Questa improbabile quanto forte amicizia, porterà le ragazze a scoprire di avere in comune molte più cose di quelle che pensavano…

 

Daniel Speck “Volevamo andare lontano”: la serie tv.

Crediti immagine: ZDF, Rai

Arriva anche in Italia la miniserie tv tratta dal bestseller di Daniel Speck “Volevamo andare lontano”, romanzo che, dopo essersi affermato come il debutto di maggior successo in Germania (con ben 85 settimane di permanenza nella classifica di Der Spiegel) tra 2016 e 2017, ha conquistato l’anno scorso anche la classifica di narrativa straniera in Italia.
Realizzata dalla emittente tedesca ZDF e acquisita dalla RAI durante l’ultimo Festival di Berlino, la fiction tv andrà in onda in due puntate stasera e domani (lunedì 3 e martedì 4 giugno), in prima serata su RAI 1. I tre episodi originali sono stati adattati per il palinsesto italiano in due parti, intitolate «L’amore» e «Il segreto». Per i lettori del romanzo, sarà un modo per rivivere l’appassionante saga della famiglia Marconi, tra l’isola di Salina e Milano, tra l’Italia e la Germania. Una storia che si snoda lungo tre generazioni, un grande amore sospeso nel tempo, e un mistero che una giovane donna in cerca delle proprie radici, oggi, cercherà di sciogliere.
Per chi attraverso la serie tv scopre per la prima volta questa saga, sarà l’occasione di farsi conquistare dalla narrazione travolgente di Daniel Speck, che in questi giorni sarà in Italia per parlarci anche del suo secondo romanzo, Piccola Sicilia.

Crediti immagine: ZDF, Rai

Fuoco è tutto ciò che siamo – Guido Saraceni

Il romanzo narra la storia di Davide Manfredi e di Giulio Lisi. Il primo è uno studente liceale di quasi diciotto anni convinto di trovarsi in quella fase della vita in cui un essere umano non conta quasi nulla, relegato a mero numero da un mondo di adulti che non sempre stima e raramente comprende, isolato dalla maggior parte dei suoi coetanei soprattutto a causa della loro superficiale e malsana passione per i social network. A questo “pazzo pazzo mondo fatto di like e di cuoricini”, Davide preferisce, di gran lunga, la vita reale: il suono distorto della sua chitarra elettrica, le “situazioni esplosive” organizzate assieme a pochi ma fidati amici, i baci appassionati di Alice – la sua ragazza. Giulio Lisi, invece, è un uomo di quarant’anni che insegna storia della filosofia nello stesso liceo in cui studia Davide, un professore profondamente innamorato della sua materia e dei suoi studenti – ma altrettanto seriamente seccato dalle mille pastoie che mortificano il sistema scolastico italiano, snaturandone la vocazione. Oltre ad essere parecchio attivo sui social
network, il prof. è responsabile di un progetto educativo con cui segue da vicino gli studenti “problematici”.

Giulio e Davide si incontreranno casualmente un pomeriggio di gennaio, quel giorno, ciascuno avrà qualcosa di importante da imparare dall’altro.

Fuoco è tutto ciò che siamo è un libro poliedrico, colmo di spunti sapientemente intrecciati e coesi. Utilizzando uno stile narrativo semplice ed accattivante, l’autore racconta di gioventù, di amore, scuola, amicizia… soprattutto, descrive la sconfinata passione che gli adolescenti provano nei confronti della vita, una preziosa scintilla vitale che gli insegnanti di ogni ordine e grado hanno il dovere di suscitare e proteggere, perché, come ebbe a dire Plutarco, “gli studenti non sono cassetti da riempire, ma fuochi da accendere”.

Intervista a Chiara Ferraris

Un’intervista dell’editor Valentina Rossi a Chiara Ferraris che presenta il suo libro “L’impromissa”, disponibile dal 2 aprile in libreria.

Cara Chiara, il tuo romanzo d’esordio “L’impromissa” è finalmente uscito in libreria, eppure
questa bellissima storia ha già ricevuto numerosi apprezzamenti e vinto anche un premio,
prima ancora della pubblicazione con Sperling & Kupfer. Ti va di raccontarci com’è andata?

Il romanzo è nato nel 2014. Chi lesse la prima stesura mi consigliò di andare avanti, di tentare di
pubblicarlo, per cui iscrissi il romanzo al premio nazionale per inediti Parole di Terra, anche se ero molto
scettica sulla possibilità di arrivare in finale. Invece, si è aggiudicato il primo posto della sezione
Narrativa. Questo ha legittimato in me l’idea che il romanzo fosse davvero buono. La notizia, poi, che
avrei pubblicato con Sperling & Kupfer è stata un’ulteriore importante conferma. Oltre a farmi sognare a
occhi aperti.

“L’impromissa” è una storia complessa, intensa. È al tempo stesso la storia di un amore, di una
famiglia, delle donne di ieri e di oggi che ne fanno parte, e molto, molto di più. Da dove è nata
l’idea del romanzo?

Tutto è cominciato con un’immagine precisa che avevo in mente: una ragazzina davanti a un orfanotrofio.
Ho pensato a tutto il subbuglio interiore che poteva vivere, in un momento del genere. Così è nata Alice,
un personaggio che va incontro a una serie di vicende che le rivoluzionano di continuo la vita, in un
periodo storico che già di per sé non è semplicissimo, il primo dopoguerra. A farle da controparte, nel
presente, c’è Agata, la pronipote che trova i suoi vecchi quaderni. Sembrano due donne diverse, ma in
realtà hanno molte cose in comune. Nel romanzo affronto temi a me molto cari, come la famiglia, la
Resistenza partigiana, ma soprattutto l’amore. Volevo una storia che facesse battere il cuore.

Genova e la Valpocevera. I luoghi hanno un ruolo fondamentale nel tuo libro, sono quasi un
personaggio a sé.

Ho deciso di ambientare il romanzo in quelli che sono, per me, i luoghi del cuore. Trovavo cruciale che il
lettore fosse partecipe del legame forte che le protagoniste provano per la propria terra.
Genova è spesso ricordata per il mare o per i palazzi antichi e il centro storico. Ma anche le valli intorno
sono molto belle: è una campagna selvatica, stretta, tortuosa, ma è stupenda. Io ho avuto la fortuna di
vivere nell’alta Valpolcevera, negli ultimi anni, e di poterne apprezzare le sfumature.

Perché questo titolo, L’impromissa?
«Impromissa» è una parola genovese che significa «promessa sposa». È una parola dal sapore antico che
riprende due aspetti importanti del romanzo: il legame con il territorio e il tuffo nel passato che si fa
leggendo i quaderni della zia Alice. E poi, nella narrazione, rappresenta anche un punto di svolta nella
vita della protagonista.

Intervista a Katharine Dion

Un’interessante intervista dell’editor Anna Pastore all’autrice Katharine Dion.
Katharine Dion è  un’autrice americana trentottenne al suo libro d’esordio con “Io, dopo di lei”, un romanzo che è stato apprezzatissimo da critica e pubblico: Best Book dell’estate 2018 per Time, Top Book dell’estate 2018 per O, The Oprah Magazine, libro del mese per People, Must Read per il New York Post.

Com’è nata l’idea del tuo primo romanzo, Io, dopo di lei?

Da diverse suggestioni. Quando avevo ventotto anni, sono tornata a casa, in California, dopo dieci anni di assenza. I miei genitori non erano più gli adulti ai quali dovevo chiedere il permesso di usare la macchina ma persone differenti, piene di ansia e paura. Avrei voluto conoscere il loro passato, in particolare quello di mio padre, che aveva sempre parlato poco, e perciò comprai un registratore per intervistarlo. Non ho mai riascoltato l’intervista, soprattutto perché ero concentrata sulla voce del protagonista del mio libro, un uomo sulla settantina, diverso da mio padre ma con le sue debolezze. Nello stesso periodo, una mia cara amica si è tolta la vita e anche il mio dolore per la sua perdita ha influenzato la scrittura. Quando poi mi sono resa conto, parlando con altri suoi amici, di non averla conosciuta del tutto, ho capito anche che il mio ricordo di lei sarebbe stato differente da come avrei voluto. Tutto questo – il dolore, la memoria, la paura – è entrato nel romanzo, anzi è diventato la sua linfa emotiva.

Qual è il tema principale del tuo romanzo?

Innanzitutto l’intimità, e i suoi limiti. Il mio romanzo racconta lunghi matrimoni, amicizie complicate, la sorpresa di scoprire che i figli sono diversissimi da te, la fatica dei figli adulti quando devono prendersi cura di genitori anziani. I personaggi del mio del libro si vogliono bene, però non sempre si capiscono. Questo mistero – che le persone con le quali condividiamo la più profonda intimità possano esserci anche estranee – è il cuore del libro.

Io, dopo di lei esplora anche il desiderio tutto umano di dimostrare a ogni costo che la propria vita ha un senso. È proprio per quel desiderio che il protagonista Gene finge di non vedere le verità che intaccano la sua narrazione di una vita familiare felice. Gene è profondamente convinto che il suo matrimonio con Maida sia stato un successo, e chiunque lo metta in dubbio diventa una minaccia. D’altro canto, non può fare a meno di chiedersi se quella felicità era reale. Allora la vera domanda non è se Gene e Maida sono stati davvero felici, ma se basta l’ombra di un dubbio per incrinare l’idea di felicità.


Qual è il punto forte della tua scrittura?

I personaggi del mio romanzo sono persone normali con problemi normali, capaci di sentimenti profondi e contraddittori. Scrivendolo, volevo raccontare quei sentimenti con la stessa complessità che di solito la letteratura riserva ai pensieri. Volevo raccontarli con un linguaggio semplice, come i miei protagonisti, ma abbastanza ricco da cogliere tutte le sfumature. Gene ha spesso esperienze che vanno al di là della sua capacità di esprimerle a parole, però ne intuisce il senso profondo: per esempio, quando capisce che il dolore per la morte della moglie assomiglia all’innamoramento, o quando ricorda il giorno in cui la figlia ha smesso di vederlo come un padre fantastico ed è diventato un uomo qualunque.

Quali opere hanno influenzato la tua scrittura?

Il linguaggio interiore di Gene viene dalle letture di cui mi sono innamorata da ragazzina e poi da giovane scrittrice. I romanzi di Henry James, Middlemarch, e soprattutto quelli della Woolf, Mrs. Dalloway e Gita al faro riescono a seguire il flusso di coscienza, la sua natura mutevole, disordinata e istintiva, rendendolo autentico. Per me rimangono maestri insuperabili. Per quanto riguarda la complessità psicologica, nessuno scrittore mi ha insegnato tanto quanto Tolstoji. Ha ragione Cechov quando dice che è un modello per tutti gli scrittori. Nella letteratura contemporanea ammiro molto autori come Alice Munro e Marilynne Robinson.

Il caso Moro spiegato ai ragazzi

Il caso Moro spiegato ai ragazzi

di Alessandro Bongiorni

articolo comparso il 15.03.2018 su DonnaModerna.com

 

Lo statista democristiano fu rapito dalle Brigate Rosse il 16 marzo 1978. Un giovane scrittore, che parla del sequestro nel suo ultimo romanzo, qui racconta perché è stato il nostro 11 settembre

E ra il 25 settembre del 1974 quando Henry Kissinger, potentissimo Segretario di Stato americano, premio Nobel per la pace l’anno precedente, minacciò di morte Aldo Moro: «Se non cambia la sua linea la pagherà molto cara» berciò, alludendo alla politica di apertura che Moro, democristiano doc, aveva intrapreso nei confronti del Partito comunista. Dopo l’incontro, Moro ebbe un malore. Interruppe la visita di Stato – in quei giorni, in veste di ministro degli Esteri, si trovava in viaggio ufficiale negli Stati Uniti – e tornò in Italia di corsa. Ma non indietreggiò di un passo. Al contrario, tirò dritto per la sua strada. Fino alla fine. Basterebbe questo episodio per comprendere la rilevanza della figura di Moro. Ma se a 40 anni dalla sua scomparsa dovessi raccontare a qualcuno cosa abbia reso indimenticabile quest’uomo non mi soffermerei né sulla sua biografia né sul suo operato politico, entrambi comunque ricchissimi.

Cattolico, antifascista, professore universitario, rifondò la Dc dopo la guerra e ne fu sia segretario che presidente. In Parlamento dal 1946, partecipò alla Costituente e fu 2 volte premier e 4 volte ministro. Ma quello che lo consegna al mito, un mito tragico, è il sentimento comune scaturito dal suo sequestro e dal successivo omicidio: una risposta intestina a qualcosa percepito fin da subito, e dalla maggior parte di noi, come sporco e indelebile.

All’epoca del rapimento nemmeno io c’ero: sono nato 7 anni dopo. Ma dalle testimonianze che ho raccolto per scrivere Strani eroi ho scoperto che non esiste persona, da nord a sud e di qualsivoglia estrazione sociale o politica, che non ricordi nitidamente cosa stesse facendo il 16 marzo 1978. Che non ricordi il momento esatto in cui è venuta a sapere che un commando delle Brigate Rosse aveva rapito il presidente della Democrazia Cristiana e trucidato i 5 uomini della sua scorta, 3 dei quali poco più che ragazzi.

Per quelli della mia generazione, da questo punto di vista, la portata del sequestro Moro è qualcosa di paragonabile all’11 settembre: quel pomeriggio del 2001, ad esempio, ero appena entrato in casa e ho assistito allo schianto del secondo aereo dirottato dai jihadisti contro la Torre Sud nella sala di casa mia, in piedi accanto alla libreria. Sembra ieri. Anche a chi ha vissuto i giorni caldi e confusi del sequestro Moro continua a sembrare ieri. E anche in quel caso si è creata una sorta di memoria collettiva – e spesso condivisa – che l’Italia, un Paese da sempre e per sempre frammentato, ha conosciuto solo in pochi frangenti della sua storia.

A mantenere vivido il ricordo di quei fatti c’è anche, o soprattutto, l’enorme senso di incompiutezza davanti a quella verità zoppa che ancora oggi – dopo 40 anni, 7 processi e 1 commissione d’inchiesta – alberga in tutti noi. Anche in chi, come me, quel giorno non c’era.

 

ALDO MORO, UN MISTERO ITALIANO

16 marzo 1978
A Roma, in via Fani, un commando delle Brigate Rosse sequestra Aldo Moro che sta andando alla Camera per la fiducia al governo. La scorta viene uccisa.

18 marzo 1978
Le Br fanno ritrovare il primo di 9 comunicati.

23 marzo 1978
Pci e Dc adottano la linea della fermezza: nessuna trattativa per liberare Moro.

20 aprile 1978
Dopo una serie di errori investigativi e abbozzi di trattativa, le Br comunicano di avere terminato il processo a Moro.

5 maggio 1978
Moro scrive alla moglie: «Tra poco mi uccideranno. Ti bacio un’ultima volta, Norina».

9 maggio 1978
In via Caetani la polizia trova il corpo di Moro, ucciso a colpi di pistola, nel bagagliaio di una Renault R4 rossa.

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