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Il 25 maggio 1963, quasi sessant’anni fa, fu fondata l’Unione Africana, un’organizzazione che mirava a far uscire il continente dalle paludi del colonialismo. Al di là degli esiti politici, di certo quella data ha segnato la fine di un’epoca e la nascita di movimenti culturali, artistici, letterari innovativi e importanti per il mondo intero. Se infatti molti scrittori, nei diversi paesi africani, mettevano in discussione l’uso della lingua coloniale per tornare a quelle autoctone, molti altri invece decisero di farne uno strumento di diffusione delle proprie tradizioni, piegandole alle rispettive esigenze. La straordinaria ricchezza delle lingue, e delle loro varianti, ha dato vita così a letterature vivacissime. Letterature che hanno viaggiato con i loro autori, verso Europa e America soprattutto, quando regimi totalitari e guerre civili li hanno costretti alla diaspora. E che hanno influenzato e alimentato nuove forme – ibride, meticce, giovani, prepotenti – come succede nel mondo musicale. Il romanzo allora non muore mai, risorge anzi dalle proprie ceneri proponendo ai lettori anche la scoperta di mondi poco noti. Nel corso degli anni, abbiamo esplorato (in ottima compagnia editoriale) quindi un’Africa più che geografica, diremmo ideale. Abbiamo pubblicato i Nobel Wole Soyinka, nigeriano che affronta la scrittura con il piglio di un narratore orale, e Toni Morrison, afroamericana che ha voluto dare voce al proprio popolo mercificato e segregato. Abbiamo poi fatto i conti con il colonialismo nostrano pubblicando i romanzi di Nuruddin Farah, somalo che vive in Sudafrica e parla italiano. E Madre piccola, il bellissimo struggente romanzo di Cristina Ali Farah, italo-somala (nessuna parentela), che ha vissuto a Roma (tra l’altro) e ora si è stabilita a Bruxelles. L’anno scorso sono usciti poi Una spia americana di Lauren Wilkinson, newyorchese, che ha scavato nella morte di un Che Guevara africano, e Leopardo nero Lupo rosso, il fantasy dirompente che Marlon James (giamaicano trasferito in Minnesota) ha immaginato come un’epica fondativa dell’Africa. E ora è appena arrivato in libreria Storie della mia città di Sarah Ladipo Manyika, nigeriana che insegna a San Francisco e racconta una donna capace di invecchiare con grazia. Altri ne arriveranno: se è vero, come dice Borges, che siamo la nostra memoria, è anche vero che essa è intessuta delle storie che ci raccontiamo, e che lasciamo ci siano raccontate. Il bello è lasciare che siano sempre diverse.

Di seguito una breve riflessione di Chiara Piaggio, autrice della postfazione di Storie della mia città.

L’intero continente africano è attraversato da un fermento culturale destinato a crescere, fatto di libertà espressive, sperimentazioni e interazioni di linguaggi che trasmettono un’africanità ben lontana da quella che finora l’Occidente ha immaginato. Se la produzione cinematografica ha ormai una storia lunga e consolidata – basti pensare che il Fespaco, il più importante festival del cinema nel continente, è nato nel 1969 e che Nolliwood, l’Holliwood nigeriana nata nei primi anni ’90, è ormai un’industria da 800 mln di dollari – la produzione letteraria ha, al contrario, faticato a farsi spazio. Oggi però, pur con forti differenze su base nazionale e regionale, la produzione editoriale si sta affermando, liberando energie multiformi e inaspettate. Sempre più, insomma, l’Africa si conferma un continente non da aiutare, ma nel quale investire.

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