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AFFIDIAMOCI AL NYT. Noi non possiamo parlarvi di Anthony Marra. Non saremmo obbiettivi. Per questo, tra le centinaia di recensioni dedicate negli Stati Uniti a  La confessione di Roman Markin, abbiamo scelto quella per noi più bella, e l’abbiamo tradotta. E’ di Sarah Lyall, ed è uscita sul New York Times il 7 ottobre 2015 (e chissà come mai, quando si parla di Marra, ricorre sempre la parola “miracolo”. Ci sarà un motivo…).

Eccola:

Nel suo romanzo “Il libro del riso e dell’oblio”, Milan Kundera descrive come, alla fine degli anni Quaranta, un ufficiale comunista Ceco caduto in disgrazia viene aerografato e cancellato dalla storia. Un momento era in piedi, al fianco di un altro ufficiale, affacciato a un balcone di Praga, e un momento dopo non c’era più.

Triste destino, per quell’uomo, condannato a non esistere. Ma triste anche il destino dell’uomo destinato a cancellarlo dalla storia. Ed è proprio così che comincia il nuovo, straordinario libro di Anthony Marra, La confessione di Roman Markin, una serie di storie connesse tra di loro, che si dispongono con leggerezza nel tempo e nello spazio, dal 1930, ad oggi, a domani, da Leningrado a una città siberiana chiamata Kirovsk, poi alla Cecenia, e poi di nuovo indietro.

Ogni storia di questo libro è una pietra preziosa, e l’insieme è ancora più prezioso delle singole parti: un’esplorazione, in alcuni momenti toccante in modo quasi insopportabile, dell’importanza dell’amore, del peso del retaggio familiare, degli usi e degli abusi della storia, e della necessità di recuperare il passato per capire chi siamo veramente, e che cosa veramente è successo.

La prima storia vi spezzerà il cuore. È ambientata a Leningrado nel 1937, ed è raccontata da Roman Markin, un pittore cooptato dallo stato e obbligato a diventare un “censore comunista”. Roman declama la trita propaganda del regime, al punto di arrivare a dire che il fratello, Vaska, condannato per “radicalismo religioso”, era “un pazzo che avvelenava gli altri con l’illusione che ci aspetti la beatitudine eterna. Ma sono parole dettate dall’istinto di sopravvivenza, dal desiderio di continuare a vivere.

Il suo è un lavoro ridicolo e terribile. Sepolto da cataste di fotografie, una volta deve aerografare Trotsky, un’altra inserire qualche capo del partito, e ogni volta gli tocca ravvivare l’immagine di Stalin. E a un certo punto, dopo che proprio lui aveva sigillato il destino del fratello, evitando di avvisarlo dell’imminente arresto, gli viene ordinato da uno spietato ufficiale di rimuovere il fratello da una adorata immagine della loro infanzia. Roman esegue, ma qualcosa gli si spezza nel cuore.

“Dietro di lui c’era nostro padre e, con gesti lenti e uniformi, tracciai sopra Vaska un’approssimazione dei suoi pantaloni, così da far sembrare che lo stessi avviluppando nei suoi abiti, dove sarebbe stato al sicuro e al caldo, la pelle premuta contro la sua.”

Naturalmente, non passa molto tempo prima che venga arrestato anche Roman (il perché, lo sapremo solo molto, molto più tardi). Ma a quel punto Roman aveva già cominciato una sovversiva azione di “restituzione” della vita del fratello alla storia, inserendo surretiziamente il volto del fratello in tutte le immagini che poteva, e in tutte le forme: adulto, bambino, persino il vecchio che Vaska non sarebbe mai diventato.

 “…mi ero reso conto che, prima di essere un correttore, un funzionario della propaganda, un cittadino sovietico, prima ancora di essere un uomo, io ero un prolungamento di vita dopo la morte per le immagini che avevo distrutto.”

È difficile immaginare come le storie successive possano superare la prima per bellezza e pathos, così come è difficile immaginare come questo libro possa essere migliore del romanzo d’esordio di Anthony Marra, La fragile costellazione della vita. Eppure, è così, sia la prima cosa, che la seconda.

Leggete le store in ordine, e così vi renderete conto di come si costruiscono una sull’altra. È come se l’autore avesse preso dei fogli trasparenti, ognuno contenente un pezzo di un’immagine, e le avesse delicatamente sovrapposte, una dopo l’altra, fino a comporre un quadro.

Una storia introduce il personaggio di una celebre ballerina, che Roman aveva – parzialmente – cancellato da una fotografia, e che era stata esiliata in un campo di prigionia siberiano, che più tardi sarebbe diventato la città di Kirovsk, il villaggio minerario nel quale si svolgerà buona parte del libro, decenni più tardi.

E incontreremo anche la nipote, della ballerina, che sposa un ricchissimo oligarca, ma che rimpiange, e piange, il suo primo amore, Kolja. Poi scopriremo la storia del direttore del museo di Grozny, nella Cecenia del 2003, quella di un ragazzo che si barcamena nella San Pietroburgo di oggi, quella di un soldato ceceno dal futuro incerto, e molte altre.

E Marra non perde mai nulla. Ogni dettaglio, ogni particolare (soprattutto un quadro del XIX secolo raffigurante un paesaggio bucolico ceceno), tutto torna. Dettagli apparentemente insignificanti finiscono per diventare parti strutturali della storia.

E quando incontrerete il nipote di Roman Markin, ormai morto da molti anni, e vedrete come egli ha avuto la possibilità di riscrivere la storia della sua famiglia come verità, e non più come finzione, allora vi renderete conto dell’incredibile talento di Marra nel tenere “tutto insieme”, e di come egli sia riuscito, miracolosamente, a farci entrare nel cuore queste storie e queste vite.

A tratti riesce anche a farci ridere. Come quando, essendo stato ordinato di pubblicizzare la Grozny devastata dalla guerra come “la Dubai del Caucaso”, il direttore dell’ufficio turistico realizza una strepitosa brochure pubblicitaria: “Nel vedere uno spazio vuoto in cui un tempo sorgeva un caseggiato, annotai «panorami che si estendono a perdita d’occhio». Osservai esultante un branco di cani inselvatichiti rincorrere un uomo e scrissi «incontri inaspettati con la natura selvaggia!» E di un’amica che vuole trasferirsi in Svezia dice: “Temo per il suo futuro in un Paese i cui cittadini sono costretti a montarsi i mobili da soli.

Molto più tardi, il fratello minore di Kolja, Alexsej, chiede un passaggio appena sbarcato all’aeroporto di Grozny, e ne ricava una lezione dall’autista: “«Qui siamo in Cecenia», disse con un tono che esprimeva sconcerto, pietà e forse anche un po’ di meraviglia. «Non servono le cinture.»”. Alexsej, che afferma di voler diventare un “aforista di professione”, è una miniera di frasi memorabili, e Marra lo utilizza splendidamente per evitare di sottolineare troppo il ruolo dell’autore, per nascondersi un po’ dietro il suo personaggio.

«Il ricordo è l’unico vero bene immobile»” risponde Alexsej a un uomo che cerca in tutti i modi di comprare una cosa che lui non vuole vendere. “«L’ha scritto Nabokov.»” “«Buon per lui. Allora?»”, risponde l’uomo.”

Con eroismo pacato e silenzioso, anche i personaggi più sgradevoli rivendicano il diritto di riscattarsi dalle menzogne che sono state loro raccontate, dai compromessi che hanno dovuto accettare, dai tradimenti che sono stati costretti a sopportare, o a commettere.

“«Lei crede di raccontare la sua storia, ma in realtà è soltanto una pagina bianca.»” dice una guardia a Roman, in prigione.

Marra dimostra che la guardia si sbagliava.

Marra inizia questo miracolo di libro facendoci vedere come un sistema tirannico può cancellare il passato, la verità, le persone stesse. E finisce dimostrando, attraverso i suoi personaggi coraggiosi, imperfetti e profondi, come i singoli individui possano poi recuperare le cose che sono state loro tolte.

Se avete perso fiducia nella potenza emotiva della narrativa, Anthony Marra vi farà cambiare idea.

 

 

 

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