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Ero a Londra quando ho saputo che Toni Morrison era morta: ho camminato fino a una chiesa di Peckham, e mi sono seduta su una panca vuota al suo esterno. Volevo il silenzio, ma desideravo anche sentire il suono delle campane, come a celebrare una scrittrice potente la cui voce riecheggiava distintamente nella mia testa.

Ricordo quella domenica di Pasqua, nel 2017, quando passai un pomeriggio a casa di Toni – e disse di chiamarla Toni. Ci raccontò del romanzo a cui stava lavorando. Voleva intitolarlo Justice. Ricordo come sedeva eretta e magnifica, tutta vestita di nero, dai pantaloni al caffetano al cappello di lana, in attesa che l’intervista iniziasse.

Disse che in Justice c’era un padrone di schiavi di nome Goodmaster che imponeva loro il suo nome. Gli schiavi tengono il nome tanto detestato per potersi ritrovare più facilmente nelle generazioni successive. Tre dei loro discendenti sarebbero stati i suoi personaggi. Li aveva chiamati Courage, Freedom e Justice. Ricordo di aver pensato che questa è una battaglia non ancora finita e mi sono chiesta se ha terminato di scrivere Justice e se la giustizia sarà mai compiuta.

Quando, nel corso dell’intervista, ho citato James Baldwin, lei ha sospirato con affetto chiamandolo Jimmy. Ricordo quello che ha scritto alla sua morte – i doni che le aveva fatto: tenerezza, coraggio e linguaggio. Anche lei ci ha ci ha regalato qualcosa, soprattutto il coraggio di scrivere le nostre storie senza badare allo sguardo di nessuno.

Ricordo il discorso di accettazione del Nobel e le righe che ho imparato a memoria: «Il linguaggio non potrà mai descrivere con esattezza la schiavitù, il genocidio, la guerra. E nemmeno dovrebbe aspirare all’arroganza di poterlo fare. La sua forza, la sua felicità stanno nel protendersi verso l’ineffabile.» In quel discorso, raccontò la parabola di una vecchia donna, e ricordo l’intensità delle domande che le vengono poste. «Dicci che cos’è essere donna affinché sappiamo che cos’è essere uomo. Che cosa si muove ai margini. Che cosa significa non avere casa in questo luogo. Venire separati da tutti quelli che si conoscono. Che cosa significa vivere al limitare di un paese che non sopporta la tua presenza.» Toni lo scrisse nel 1993 – potrebbe essere nel 2019.

Sono andata nel suo bagno degli ospiti quella domenica di Pasqua e l’ho trovato pieno di fotografie di scrittori che avevo sempre ammirato – Wole Soyinka, Gabriel García Márquez, Baldwin – e una lettera del Comitato del Premio Nobel nella quale annunciava la sua decisione di conferirle l’alta onorificenza. C’era anche una Notifica di Rifiuto alla Pubblicazione dove si diceva che Paradiso, il romanzo di Morrison, era bandito dagli Istituti di Correzione del Texas per tema di «disagi tra i detenuti come scioperi o rivolte.»

Ricordo solo quanto ci ha fatto ridere quel giorno. Le ho chiesto che cosa le aveva sussurrato il presidente Barack Obama dopo averle conferito la Presidential Medal of Freedom e di essere rimasta sorpresa quando ha risposto che non se lo ricordava. Mi sono resa conto poi che lei, maestra del racconto, stava semplicemente spiegando che quando si è incantati da qualcuno, ciò che rimane nella memoria non è quanto ha detto ma come lo ha detto. Fu suo figlio, dopo, a chiedere a Obama che cosa aveva mormorato nell’orecchio di sua madre. «I love you», aveva risposto lui.

Ricordo alla fine, di averle detto che mio figlio voleva conoscere il segreto della sua magnifica scrittura. «Digli che sono un genio», e sorrise. Ricordo quanto abbiamo riso.

(pubblicato in The Washington Post il 9 agosto 2019)

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