LEI STA ANCORA MORENDO SU FACEBOOK di Julie Buntin
Sono stata ossessionata dal profilo Facebook di Lea dal gennaio 2006, quando mi chiese l’amicizia. Io avevo aperto il mio profilo da un mese. Alle superiori eravamo state amiche in modo totalizzante, e insieme facevamo cose che non avremmo mai fatto da sole, come fare il bagno nude nel lago Michigan strafatte di ectasy. Durante l’estate, le nostre feste duravano settimane. All’una del mattino scappavamo fuori di casa e ci addentravamo nella foresta fino a un campo dove fumavamo sigarette e ci ubriacavamo di vino rubato alle nostre madri. Parlavamo all’infinito del tempo che stavamo sprecando e di come uscire dal vicolo cieco del Michigan settentrionale: il ritornello di tutte le ragazze di provincia. Ci dicevamo, senza un briciolo di ironia, che eravamo indistruttibili.
La nostra fu un’amicizia che si sviluppò interamente «offline», il che è abbastanza contraddittorio, visto che poi, per quasi dieci anni, la maggior parte della mia relazione con Lea si è svolta attraverso Facebook.
Alcuni mesi fa, stimolata dall’acquisto di un iPhone, ho aggiornato le app del mio telefono. Le usavo tutte poco – Chase, Twitter, Groupon, Facebook, iPeriod – e non le aggiornavo praticamente mai. Mi sono accorta che uno dei cambiamenti principali di Facebook consisteva nei messaggi privati, che erano diventati molto meno e-mail e molto più instant messages. Adesso, se visiti il profilo privato di qualcuno e clicchi sul pulsante dei messaggi, ti appare tutto lo storico della corrispondenza tra di voi.
Il 2 marzo di quattro anni fa, Lea è morta per un problema al fegato legato all’abuso di droghe. Il 10 giugno sarebbe stato il suo ventisettesimo compleanno. Questo è il periodo dell’anno in cui penso più spesso a lei, e sono sicura che l’algoritmo di Facebook che monitora le nostre attività sul sito si è accorto che le mie visite al profilo di Lea aumentano esponenzialmente quando il clima comincia a farsi più caldo. Infatti non so come sono finita a rileggere le nostre vecchie chat. Non mi sembrava di aver schiacciato nulla, le nostre conversazioni del passato sono semplicemente apparse, insieme al volto di Lea, come se avesse qualcosa da dirmi, o semplicemente volesse chiacchierare. O forse ho cliccato, magari per sbaglio. Anche se la mia interpretazione da secchiona mi ha fatto pensare che la tecnologia è la creazione umana più vicina alla magia che ci sia. Io non so nulla di come funziona internet; penso ancora, più o meno, che internet sia semplicemente aria. E allora perché non dovrebbe essere plausibile che i messaggi di Lea siano apparsi perché lei mi manca da morire, e perché mi sento in colpa nei suoi confronti?
Lea era il genere di persona cui chiedi l’amicizia su Facebook per tampinarla. Quando avevamo 16 anni ero innamorata di lei, e in un modo non del tutto platonico; quel modo che ogni donna che abbia fatto da spalla in un duo di teenager comprende perfettamente. E come ogni spalla io non mettevo mai in discussione le nostre cattive azioni: la seguivo completamente, nello spirito della «migliore amica», sedotta dall’avventura. Ma c’era una parte di me che anticipava la persona che sta scrivendo adesso: e anche quando ci siamo lasciate andare a notti di cocaina e Xanax, io sapevo che quelli erano gli ultimi momenti della mia giovinezza ribelle, e che me ne sarei andata. Ci eravamo promesse che saremmo state per sempre amiche, ma poi io sono andata al college a New York, e lei in Costa Rica con il suo ragazzo del momento. Dopo di che, ho potuto solo osservare la sua spirale discendente da lontano, o forse più esattamente da troppo vicino, separate solo dallo schermo di un computer.
Durante il mio primo anno di università, gli aggiornamenti dello status di Lea erano quasi sempre divertenti, bizzarri, suoi. Un anno dopo invece erano diventati scomposti: c’erano delle cose che la Lea che avevo conosciuto io avrebbe trovato ridicole, errori di ortografia, frammenti notturni chiaramente postati dopo centinaia di drink e chissà cos’altro. Anche la sua foto del profilo era cambiata. All’inizio c’era Lea sulla spiaggia, abbronzata e sorridente. Dopo, c’era Lea 15 chili più magra di quanto l’avessi mai vista, le guance scavate, che guardava qualcuno dietro l’obbiettivo. Quando tornai a casa in Michigan durante la pausa invernale, la incontrai in qualche locale, a qualche festa, e ricevetti alcune sue incomprensibili telefonate nel cuore della notte. Ci stavamo separando, rapidamente e inesorabilmente. Anche io bevevo molto con i miei vecchi amici del liceo durante le vacanze, ma a New York stavo vivendo la vita che io e Lea avevamo sognato, se solo fossimo riuscite a scappare dal Michigan. Avevo 19 anni, e non riuscivo a capire che cosa era diventata la sua vita, perché non era riuscita a crescere insieme a noi, perché non era riuscita a darsi una regolata.
Da quel momento in poi, Lea è diventata un punto fisso dei pettegolezzi da vacanza. Da Facebook venivo informata che usciva con un tipo che ai tempi del liceo prendevamo in giro in quanto fattone spaventoso. Spesso aveva un occhio nero. Aveva avuto una specie di crisi epilettica da Walmart. E tutti i miei vecchi compagni non perdevano occasione di spettegolare su quanto fosse ridotta male, salvo poi, quando la incontravano, usare le sue stesse droghe, fare l’alba con lei, parlando dei bei vecchi tempi, per poi tornare all’università e lasciarla di nuovo sola.
Penso di essermi resa conto di quanto il nostro comportamento fosse ipocrita, e forse avevo anche affrontato l’argomento con i miei amici. E dopo la sua morte mi sono detta che avevo cercato di aiutarla. Che avevo fatto quello che potevo. Avevo cercato di ristabilire un contatto e lei mi aveva ignorata. Aveva smesso di rispondere ai miei messaggi, alle mie mail, alle mie telefonate. Al suo funerale, mi sentivo in colpa per non aver fatto di più, ma nello stesso tempo ero arrabbiata con lei per averci lasciati, per aver lasciato me, una amica che la amava, una amica che non l’avrebbe mai lasciata sola.
Ma Facebook racconta un’altra storia.
L’ultimo messaggio tra noi fu mandato il 21 febbraio 2007, da lei a me. Ma è un messaggio che non ho mai visto fino ad alcuni mesi fa, dopo aver aggiornato l’applicazione. Sette anni dopo che lei me l’aveva spedito. Quattro anni dopo la sua morte. Subito dopo il funerale di Lea, passai un pomeriggio terribile rovistando in una vecchia scatola da scarpe, piena di bigliettini che ci eravamo passate in classe, e fotografie di merda scattate dentro le cabine dei supermercati; non mi era passato nemmeno per la testa che Lea potesse aver lasciato qualcosa per me online. Quando, anni dopo, vidi quel messaggio, mi si fermò il respiro. Fu come se, per un secondo straniante e lancinante, lei stesse morendo di nuovo in quel preciso momento. Provai una sensazione quasi fisica, come se avessi lasciato cadere qualcosa di fragile sul pavimento e lo avessi visto che si distruggeva. E poi, la cosa peggiore: quello non era l’unico messaggio di Lea cui non avevo risposto. Ce n’erano altri, insieme ad alcuni ai quali invece avevo risposto con parole frettolose e pretenziose sulla vita a New York, superficiali considerazioni sui suoi periodi nei centri di recupero, sul fatto che suo padre se n’era andato, sulla sua depressione.
Lea è morta una prima volta poco dopo essersi iscritta a Facebook, quando io avevo assistito alla sua trasformazione in una persona che lei stessa avrebbe deriso e compatito. È morta di nuovo, di una morte più piccola, circa un anno prima della sua morte reale, quando ha smesso di postare. E poi il 2 marzo è morta pubblicamente, e la sua bacheca si è trasformata nel memoriale che è oggi. Per me, lei da allora ha continuato a morire, ancora e ancora. I post che la ricordavano erano sempre di meno, ricorrevano ormai a mesi di distanza. E quando io ho trovato i nostri messaggi, lei è morta un’altra volta, e in un modo diverso, perché io mi sono trovata faccia a faccia con il mio fallimento nei suoi confronti. Facebook ha trasformato la sua morte in un film dell’orrore concettuale. Quante volte ancora la piangerò? Quanti dettagli del mio passato, del passato di Lea, del nostro passato, sono sepolti online, aspettando che io li scopra?
E anche la sua morte fisica mi è arrivata attraverso la tecnologia. Ero dal cardiologo, per fare degli accertamenti su un’anomalia cardiaca che mi era stata diagnosticata (dovevo tenere a breve il mio discorso di ingresso al college e volevo essere certa che il mio cuore non mi giocasse scherzi mentre ero sul palco). Il mio telefono vibrò mentre il medico stava parlando di magnesio. Buttai uno sguardo allo schermo, attraverso le pieghe della borsa, e controllai i messaggi con una discrezione sovrumana (un’abilità che avevo imparato a scuola).
C’era un messaggio da un numero sconosciuto. Lo aprii.
«Lea è morta», diceva.
Rimasi fino alla fine dell’appuntamento, annuendo quando sembrava appropriato annuire, e ponendo le mie domande metodicamente. Non piansi. Non scappai fuori dalla stanza singhiozzando. Ma quel messaggio aveva spaccato il mio mondo in due. Nel primo mondo, il mondo reale, c’era un medico che stava parlando, io ero una newyorchese indaffarata che aveva speso una barca di soldi per un appuntamento per il quale avevo saltato il lavoro, e non c’era nessuno spazio per quello che avevo appena saputo; e poi c’era un groviglio di fili, e segnali, che non riuscivo a comprendere ma che mi riportavano completamente nel mio passato più profondo, nel mio secondo mondo, dove erano depositate le cose che amavo di più. Alla fine dell’appuntamento penso di aver detto «grazie». Non ricordo di essermene andata. Il ricordo successivo sono le mie lacrime disperate in mezzo alla strada, mentre Mari, la ragazza che aveva mandato il messaggio, mi diceva che Lea era morta, che i funerali sarebbero stati tra alcuni giorni, e che dovevo tornare a casa.
So che la mia ossessione per Lea è, in parte, anche egoista. La sua storia è come un ologramma. Cambiate l’inclinazione, illuminatela da un’angolatura diversa, e la ragazza morta di cui stiamo parlando sono io. Siamo state schedate dalla polizia insieme, a 14 anni, perché bevevamo birra sulla spiaggia. Al culmine della nostra amicizia sono stata con lei drink dopo drink, sniffata dopo sniffata. Se io fossi stata meno fortunata, o se lei lo fosse stata un po’ di più, come sarebbe finita questa storia? Certo, per come ricordo il nostro rapporto, io ero la spalla, e lei quella che ci spingeva sempre un passo più avanti verso il buio, dove potevamo davvero farci male. Ma ero io che le tenevo la mano, e forse, con la mia determinazione a seguirla, la incoraggiavo. Una notte, mentre eravamo distese in un campo, un po’ ubriache, mi prese la mano e mi fece promettere che non le avrei mai permesso di diventare come la triste ragazza tossica che viveva nelle baracche dietro casa mia. Te lo prometto, le dissi. Te lo prometto.
Nel corso degli anni, mi è capitato di cercare quella ragazza su Facebook. E so che oggi è una donna con due figlie, un lavoro, un marito e un sacco di amici; ha appena partecipato alla festa coi compagni di scuola di dieci anni fa.
Internet ha reso maledettamente complicata la questione di dove depositare il mio dolore. Come faccio a superarlo, ad andare avanti, se il volto di Lea è sempre in agguato nel mio telefono, implorandomi di cercare di capire fino in fondo come sia stato possibile che la mia splendida e audace amica sia morta a 22 anni? E ad ogni aggiornamento di Facebook è come se l’algoritmo volesse rendere più semplice, per me, diventare l’archeologa del passato di Lea. Non soltanto i messaggi mi perseguitano, ma con la funzione timeline posso scavare nel passato di Lea, e se voglio vederla sana, o più sana, mi basta schiacciare un bottone per vedere com’era la sua bacheca nel 2006. E ogni volta che lo faccio, ricordo la promessa che non ho mantenuto.
In qualche modo, Facebook è quasi tutto quello che ho di lei, ed è terribile. Io non riesco a conciliare i miei ricordi con i frammenti di vita che lei ha lasciato online, ma quei frammenti sono la sola cosa concreta che resta. Non mi sono mai unita alle persone che la commemorano sulla sua bacheca. Non ho scannerizzato e postato le foto di noi due insieme. Non troverete né me, né tracce della nostra amicizia, a parte alcune fotografie di gruppo scattate prima dei balli della scuola. Nei primi mesi dopo la sua morte, mi faceva piacere visitare la sua bacheca e leggere i ricordi che altri condividevano; non ho mai postato nulla non perché trovassi la cosa sgradevole, ma perché non sapevo cosa dire. Il mio dolore era tutto dentro di me, personale, privato, era qualcosa che solo Lea avrebbe potuto capire. Alcune volte, negli ultimi due anni, sono stata vicina a scrivere qualcosa, ma poi subito prevaleva la rabbia, la rabbia contro la pagina Facebook di Lea che me la faceva vedere viva, che mi imbrogliava, e mi illudeva, per un attimo, che se io avessi postato qualcosa, in qualche modo lei l’avrebbe visto.
Nel luglio 2009 Lea ha cambiato per l’ultima volta la foto del suo profilo. È un selfie – anche se lei non avrebbe mai saputo che si sarebbe chiamato così – fatto con un vecchio cellulare a conchiglia in una stanza fumosa. Non sorride. È bella. Ha un piercing sul naso (alla fine, se l’era fatto). Ha la frangia bionda pettinata – un buon segno, ricordo di aver pensato quando vidi la fotografia nelle notifiche, segno che ancora teneva un po’ a se stessa – e la pelle abbronzata dall’estate del Michigan. Una piccola stella luminosa è intrappolata in ciascuno dei suoi occhi blu, un riflesso del flash. La sua espressione è triste e distante. Con la mano libera fa un cenno di saluto, si vedono solo tre dita.
Fino a quando esisterà Facebook, Lea sarà lì, a dire addio. E fino a quando sarà lì, io la guarderò andarsene.
Originariamente apparso su The Atlantic.