L’editor intervista Niccolò Zancan

Intervista a NICCOLÒ ZANCAN sul romanzo TI MANDO UN BACIO

Quello del rapporto genitori e figli è un tema che tocca la sensibilità di tutti e che è stato trattato in molte chiavi diverse. Cosa ha spinto te a scriverne?

Per il mio giornale mi sono occupato a lungo della crisi. Ho visto comparire alle mense sociali dei miei coetanei, con le camicie stazzonate e il beauty in mano. Padri separati che passavano le notti in auto, in qualche cantina, sul divano di un amico. Erano lì – alla Caritas – per la prima volta. Mangiavano e si lavavano i denti, terrorizzati dall’idea di essere riconosciuti da qualcuno. Più di tutto, mi ha colpito pensare a quanto questo tipo solitudine – questa mancanza di futuro – stesse cambiando i nostri cuori. La crisi tiene insieme matrimoni finiti, perché non ci sono i soldi per due affitti. Costringe uomini di cinquant’anni a tornare a vivere a casa dalla mamma. Toglie ai padri l’autorevolezza, perché è difficile essere autorevoli quando si perde fiducia in se stessi.
 
Ti mando un bacio è un libro che parla di noi o esplora un terreno che molti di noi non conoscono?

Sono andato a conoscere alcuni padri separati nelle frontiere più estreme. Associazioni, case comunali, bacheche digitali: posti permeati dal dolore, dalla frustrazione e anche dall’odio, purtroppo. Ma poi ho deciso di fare un passo indietro, volevo cercare di raccontare una sofferenza meno acuta, quella che non sfocia nella cronaca nera di cui sono pieni i giornali. I protagonisti di Ti mando un bacio sono uomini normali e perdenti, nel senso letterale del termine: perdono i pezzi. Perdono anche l’amor proprio. Uomini sull’orlo di una crisi di nervi, ma che ancora si battono per non arrendersi. Li ho spogliati di ogni pudore per cercare di raccontarli così come sono, davvero, quando il mondo non li vede.
 
Quella dei padri separati è una condizione in cui l’amore rischia di
essere sopraffatto dalla rabbia, dal rancore. Qual è il sentimento che prevale nel tuo romanzo?

Vorrei che prevalesse la dolcezza. La dolcezza nel disastro. La malinconia per i baci non dati. Se è vero che nessuno si salva da solo, e io ci credo profondamente, i quattro protagonisti del romanzo sono amici. Questa è la loro fortuna. Si aiutano. Parlano dei figli. Hanno ancora dei piani, per quanto improbabili… E poi incrociano due donne meravigliose.

Che ruolo hanno le donne in questa storia?

Anche Ingrid e Chiara sono in cerca di un’altra vita, di una seconda possibilità, in qualche modo. Ma loro sono il motore del romanzo. Nel senso che prendono le decisioni, spostano gli equilibri. Si mettono in gioco. Ingrid e Chiara affrontano il dolore, invece che rifuggirlo. Se posso permettermi una caduta di stile, io le amo molto entrambe.

Qual è l’immagine a cui sei più affezionato, in questo libro?

Forse quella in cui Dan, dopo aver ricevuto un prestito dal suo amico Sergio, va a prendere la figlia Emma. Insieme vanno a fare canottaggio sul Po, poi a mangiare un gelato in centro. Una giornata normale. Ma con quella complicità che si può creare solo facendo qualcosa insieme. Mi piacciono le parole che si scambiano, l’impaccio che cercano di nascondere. E poi, se è vero che i soldi non fanno la felicità, di sicuro essere senza stipendio è una tragedia. Quello è il momento del riscatto di Dan. Tutti ci specchiamo negli occhi dei nostri figli. Quello è il momento in cui Dan, per un attimo e finalmente, riesce ad essere orgoglioso di se stesso.

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