Intervista a Elena Loewenthal, traduttrice di Avevo 15 anni, per Alchimisti di parole
Il 21 gennaio, a una settimana dal Giorno della Memoria, pubblichiamo Avevo 15 anni, il memoir di Elie Buzyn, uno degli ultimi testimoni ebrei delle persecuzioni naziste. A parte le commemorazioni, che comunque rimangono sempre utili (basti pensare all’ondata di odio che ha colpito Liliana Segre quest’inverno, scatenata quanto meno dalla mancanza di memoria), il racconto di questo medico novantenne è una lettura commovente, il trionfo della vita e della giustizia sulla morte e la sopraffazione. A tradurlo con grazia è stata Elena Loewenthal, che abbiamo intervistato per Alchimisti di parole.
Elena, oltre a essere una traduttrice di grandissima esperienza sei anche autrice di saggi e romanzi: come ti avvicini al testo di un altro scrittore per tradurlo? Quali sono le tue tecniche di traduzione?
La traduzione è lavoro di “artigianato”, è un corpo a corpo con il testo. Difficile dire quali tecniche siano da usare: io faccio una sorta di analisi del periodo, frase per frase, e poi provo a immaginare come si sarebbe espresso l’autore se avesse avuto a disposizione l’italiano e non la sua lingua, che nel mio caso è quasi sempre l’ebraico. È un lavoro di intuizione, fantasia e metodo, la traduzione.
Nel caso di Avevo 15 anni, la particolarità del testo è che si tratta di un memoir, di una storia vera e non di un lavoro di finzione: che tipo di approccio hai di fronte alla voce dell’autore?
Ecco, era proprio l’impegno a “sentire” la sua voce, ad ascoltarla. È un testo che va raccontato, immaginando di ascoltare l’autore che si racconta. Certo che in casi come questo, di memoria della Shoah, è sempre difficile, se non impossibile mettersi nei panni di chi ha vissuto e subìto esperienze così tremende, in fondo intraducibili.
In particolare, Elie Buzyn appartiene alla ormai purtroppo esigua schiera dei testimoni dell’Olocausto: tu stessa ne hai scritto (penso per esempio al romanzo che abbiamo pubblicato qualche anno fa, Lo strappo nell’anima). Hai dovuto scavare anche nella tua memoria di ricercatrice per verificare i fatti storici?
Il confronto con l’evidenza dei dati storici è sempre indispensabile. Ma nel caso di memorie della Shoah io credo che la cosa più importante sia proprio cercare una condivisione emotiva più che razionale con quegli eventi, che vanno al di là di ogni ragione storica. Una condivisione emotiva fatta di partecipazione ma anche e forse soprattutto della consapevolezza che non riusciremo mai a comprendere che cosa passa nella testa e nel cuore di un sopravvissuto: c’è un confine invalicabile fra quel dolore e la nostra capacità di capire – di noi che non siamo stati laggiù.
Credo che il tuo coinvolgimento nel tradurre questo libro sia speciale, poiché appartieni alla comunità ebraica. E siccome sei anche giornalista, ti chiedo un commento più generale sull’importanza di continuare a leggere testimonianze come questa.
È fondamentale continuare a tramandare il racconto. Come ha detto Primo Levi, il fatto che sia successo non ci mette al riparo, anzi, moltiplica le probabilità che accada di nuovo.