Intervista a Paloma Sánchez-Garnica

In occasione dell’uscita di Ultimi giorni a Berlino, la nostra editor Linda Poncetta ha intervistato l’autrice Paloma Sánchez-Garnica.

 

Prima di incontrarla, Paloma Sánchez-Garnica era per me “solo” una scrittrice pluripremiata, tra le più importanti del panorama spagnolo contemporaneo. Quando, nei giorni scorsi, è stata nostra ospite a Milano, dove ha incontrato giornalisti, librai, agenti e bookblogger, ho conosciuto una donna colta, decisa, intraprendente, che non ha paura di esporsi.

Parlare con lei è stato piacevole e illuminante, mi è venuta voglia di rileggere i suoi romanzi perché so che ora li apprezzerei ancora di più, sapendo dello scrupoloso lavoro che li precede e dello spirito che anima la mente che ci sta dietro.

In occasione dell’uscita del suo ultimo libro, Ultimi giorni a Berlino, disponibile online e in tutte le librerie, le ho fatto qualche domanda.

In tutti i tuoi romanzi, la Storia, con la S maiuscola, è un personaggio fondamentale, ma tu non ti definisci autrice di romanzi storici.

Nei miei libri non prendo un fatto o un personaggio storico come elemento centrale: pongo i miei personaggi in un’epoca determinata e ne racconto la vita quando si incontra con una determinata legge, una tradizione, dei principi morali e una precisa pressione sociale. È la gente comune a essere protagonista.

La mia intenzione è comprendere e far comprendere un’epoca attraverso gli occhi di persone come noi. Il contesto sociale, storico, geografico, infatti, ci cambia, tutto quello che ci circonda ci condiziona. E ai personaggi di Ultimi giorni a Berlino è toccato vivere in un’epoca molto dura: due guerre mondiali, crisi e totalitarismi.

Chi è il tuo preferito?

È una domanda difficile, ciascuno ha le sue peculiarità. Ci sono Claudia e Krista, le due donne protagoniste, complementari e contraddittorie, che rappresentano la realtà dell’epoca: una coscientemente antinazista, l’altra convinta che il nazismo sia la salvezza per la società, per la nazione, per il suo Paese umiliato, afflitto da crisi e problemi. Poi ci sono gli uomini, personaggi buoni ma trasformati dall’ideologia: Eric Villanueva, che ha una storia tutta particolare; il padre di Yuri, che preferisce assumersi la colpa contro di sé perché suo figlio mantenga l’immagine che ha di sua madre. Tutti loro hanno un po’ della mia ammirazione.

Il tuo ultimo romanzo è ambientato principalmente nella capitale tedesca, come il precedente, Il confine segreto dei ricordi. Sei molto legata a questa città?

Berlino mi ha sempre affascinata molto. Ci sono stata per la prima volta nel settembre del 1989, insieme a mio marito: avevo ventisette anni e per Madrid quello era il momento della liberazione, della movida, della libertà, dopo la fine del franchismo. Il passaggio in auto da una parte all’altra della città fu molto angoscioso, non sapevamo il tedesco e ci sembrò di viaggiare nel tempo. Quaranta giorni dopo, assistemmo in televisione alla caduta del muro e quello fu il momento storico che avrei voluto vivere. A partire da allora, ho seguito l’evoluzione del Paese, l’unità e la ricostruzione e mi ha sempre affascinata come la città abbia saputo imparare dalla storia, sia stata distrutta più volte e ogni volta sia stata in grado di ricostruirsi. È una città perfetta per essere raccontata in un romanzo.

Credi che in Ultimi giorni a Berlino ci siano delle somiglianze con la situazione politica attuale?

Alla fine dell’Ottocento, con la Belle Époque, l’Europa visse un’epoca di sviluppo, di scoperte, di innovamento scientifico e delle comunicazioni. Poi, i nazionalismi provocarono la Prima guerra mondiale, il cui esito destabilizzante fu causa di quella successiva, dopo l’apparizione sulla scena politica di personaggi mediocri. Oggi, siamo nella medesima situazione, come alla fine della Belle Époque: abbiamo vissuto per mezzo secolo in prosperità, poi ci siamo trovati ad affrontare una crisi sanitaria, economica e politica. Siamo vulnerabili e una società vulnerabile è facilmente manipolabile. Per questo dobbiamo contrastare i politici mediocri ed estremisti che stanno prendendo piede in Europa, affinché si garantisca l’equilibrio e si protegga la democrazia.

In questo i libri possono essere di aiuto alla società.

I libri sono fondamentali. Una società che legge è una società che ha capacità di giudizio, ha un vocabolario più ampio, maggiori capacità di analisi, è una società meno manipolabile che può sfuggire a un potere che pretende di guidarla da una parte o dall’altra. La lettura è uno strumento potentissimo e alla portata di tutti.

Parlando invece del processo di scrittura: come ti documenti per scrivere i tuoi romanzi?

Principalmente con la lettura. Quando ho un’idea e un’epoca in mente, per comprenderla leggo tutti i libri tradotti in spagnolo che la raccontano: saggi, romanzi, resoconti, testimonianze e diari della gente che l’ha vissuta. Poi guardo film e documentari sull’argomento. Trascorro molti mesi pensando, prendendo appunti a mano, immedesimandomi nelle situazioni. Una volta che mi sono immersa nella mentalità di quell’epoca, arriva il momento in cui sento la necessità di mettermi a scrivere. E durante la fase di scrittura sono molto disciplinata, mi metto nel mio ufficio e scrivo.

Hai una routine?

L’ispirazione viene scrivendo. Nessuno mi impone niente, quindi devo impormi io di lavorare. All’inizio mi costa molto, non sono sicura di niente almeno fino a pagina cento e mi capita di scartare quello che ho già scritto, perché non sono convinta o la storia non mi appassiona, quando non voglio sapere cosa succede ai personaggi che sto conoscendo.

[ndr. Curiosità: l’autrice è di Madrid, ma ha una casa vicino a Malaga, a Marbella, sul mare, che è il suo buen retiro per scrivere].

C’è qualcuno che ti aiuta durante questa fase?

Mio marito è il compagno perfetto, il mio primo lettore. Gli scrittori si sentono speciali, unici, ma serve equilibrio: quando sono euforica o, al contrario, affranta, ne parlo con lui. Lui legge e insieme discutiamo molto fino a trovare una soluzione che convinca entrambi.

E com’è invece il rapporto con la tua editor?

Lavoriamo insieme dal 2010, dall’uscita della Cattedrale ai confini del mondo. Il nostro rapporto è molto personale, quasi mi conosce meglio di me, almeno dal punto di vista narrativo. Lei non mi pone alcun limite, né di tempo, né di argomento, e mentre scrivo non mi chiede nulla. Quando la storia è pressoché completa e strutturata, comincio a lavorare con lei. Riesce a cogliere la sostanza dei personaggi, di cui parliamo per ore, come se li conoscessimo davvero, e mi aiuta a lavorarci senza che la mia vanità si senta lesa, una cosa che è molto importante per un autore. Sa come prendermi, come farmi arrivare a cambiare qualcosa senza impormelo.

Cosa significa per te essere una scrittrice donna in Spagna?

Siamo in molte donne a scrivere in Spagna. E molte sono le donne che comprano e leggono libri. In generale, però, c’è la tendenza a giudicare con pregiudizio quello che scrivono: si crede che le donne scrivano per le donne, principalmente libri banali, facili. Il serio, al contrario, è ciò che è difficile, impossibile da capire, quindi tradizionalmente attribuito agli uomini. Ma in fondo, se un libro viene pubblicato e ha successo, non è perché è stato scritto da un uomo o da una donna, ma perché è un buon libro e piace ai lettori.

[ndr. Paloma mi ha confessato di non sopportare la categorizzazione di romanzi femminili: «Vuol dire che un uomo non può leggerli?» mi ha chiesto, provocatoria. In effetti, come darle torto?]

Alchimisti di parole, intervista a Silvia Fornasiero

La misura delle nostre vite è una raccolta di frasi e aforismi tratti dai libri di Toni Morrison. Sono parole in cui si distillano molte delle caratteristiche della scrittrice: il suo stile poetico, a tratti aspro, spesso musicale, sempre folgorante per originalità e sintesi; il suo senso della letteratura sostanzialmente come ricerca della verità – umana, letteraria, filosofica, politica – e quindi come responsabilità personale di chi scrive; il suo rigore e la sua intransigenza ma anche la sconfinata tenerezza per gli esseri umani. Leggere queste frasi è un ripasso per chi la conosce e uno stimolo per chi ne ha sentito parlare ma non ha ancora trovato il tempo di scegliere un romanzo attraverso il quale avvicinarsi alla sua opera. Considerando che Morrison è stata anche e soprattutto una paladina dei diritti degli afroamericani, ma che i suoi romanzi parlano di madri e figlie, di mariti e mogli, di sopraffazione e libertà. Parlano, insomma, di tutti noi.

A introdurre questo libro è stata chiamata Zadie Smith, la cui prefazione è stata tradotta da Silvia Fornasiero, traduttrice anche di una larga parte del lavoro di Morrison. Perciò abbiamo chiesto a Silvia qualche impressione in più sulla raccolta.

La misura delle nostre vite mi è sembrato innanzitutto un omaggio (doveroso) alla grande scrittrice scomparsa la scorsa estate, un modo di offrire ai lettori gli spunti per una lettura più approfondita. Che impressione hai avuto, da traduttrice e profonda conoscitrice di Toni Morrison?

Confesso che appena ho avuto in mano il libro la mia prima sensazione è stata quella di un certo spaesamento, perché la scrittura di Toni Morrison non è quasi mai aforistica, bensì ricca, sfaccettata, fluviale (quante volte ho sudato per sciogliere certi suoi periodi!), perciò non ero abituata a considerarla per frammenti isolati, come sono quelli proposti nella raccolta. Tuttavia, procedendo nella lettura, mi sono trovata a riconoscere al volo alcune frasi, a scoprirne altre come se fosse la prima volta, e a restare senza fiato davanti alla bellezza, alla profonda verità di altre ancora. Mi auguro quindi che questa collezione di “assaggi” possa invogliare i lettori a scoprire, o riscoprire, le opere di questa grande scrittrice nella loro interezza, per poterle apprezzare come meritano.

Le frasi sono scelte secondo un criterio tematico, in linea di massima, e i temi spaziano dai sentimenti più umani, come l’amore, la gelosia, il senso di solitudine, alle riflessioni sulla scrittura come atto di responsabilità. Morrison ha questo approccio nella sua opera in generale?

Certamente. La sua aspirazione, come ha scritto, è sempre stata quella di produrre letteratura che fosse “indubbiamente politica e insieme irrevocabilmente bella” – una delle sue frasi che amo di più proprio perché racchiude in poche parole la sua concezione del proprio lavoro di scrittrice: una persona chiamata a scrivere per la comunità (nel suo caso, prima di tutto la comunità afroamericana), a descrivere il mondo nella sua crudezza, ma anche nel suo splendore, e insieme a ricordare a tutti i lettori che l’umanità è qualcosa di più e di meglio di ciò che spesso riesce a essere. Il discorso di accettazione del premio Nobel costituisce forse il punto più alto della riflessione di Toni Morrison sul significato della letteratura, e non a caso il titolo di questa raccolta è tratto da una delle frasi più memorabili di quel discorso: “Moriamo. Forse è questo il significato della vita. Ma produciamo il linguaggio. E forse è questa la misura delle nostre vite”.

Negli ultimi mesi, molti circoli di lettura si sono avvicinati a Toni Morrison, quasi sempre attraverso il suo capolavoro, Amatissima. Quale altro libro consiglieresti al neofita, e perché?

Tra i più recenti consiglierei Il dono, che risale ai primi anni della colonizzazione europea dell’America per cercare le radici del razzismo e della schiavitù attraverso la vicenda toccante di una giovane schiava, Florens, per la quale l’autrice ha inventato una lingua personalissima, ibrida, intensamente poetica. Il mio preferito dei primi romanzi di Morrison è invece Canto di Salomone, scritto in memoria del padre: un viaggio del protagonista alla ricerca di sé, alla scoperta del valore della comunità e del passato; un testo talmente complesso, profondo e variegato che è difficile presentarlo in poche parole, e che contiene una descrizione folgorante del colore nero che da sola, per me, vale la lettura.

E infine: hai tradotto la prefazione di Zadie Smith, che mi è sembrato un lucido ma anche personalissimo omaggio a Toni Morrison, punto di riferimento letterario e non solo per ben più di una generazione di scrittrici e scrittori. Che cosa pensi di questo articolo?  

Come si vede dalla data in calce, 7 agosto 2019, si tratta di un testo composto a caldo, a pochi giorni dalla morte di Toni Morrison, e la commozione sincera di Zadie Smith traspare chiaramente dalle sue parole. Insieme ad altre testimonianze che ho avuto modo di leggere in quei giorni, mi ha aiutato a comprendere a livello concreto, umano, un aspetto che prima non avevo colto pienamente, e cioè il grande debito di riconoscenza che molti giovani neri avvertono nei confronti di Toni Morrison per avere narrato la loro vita, proposto loro un modello cui ispirarsi, per essere stata tra le prime a ridare dignità alla cultura afroamericana, prima pressoché assente nel panorama culturale degli Stati Uniti. Come scrive Zadie Smith, “Toni Morrison si è messa al servizio della sua gente, e pochi scrittori sono stati chiamati a farlo, e lo ha rivendicato come un privilegio”. Credo che il suo omaggio appassionato a Toni Morrison sia un’introduzione eccellente alla lettura della raccolta.

Intervista a Christian Pastore – Alchimisti di parole

L’angelo dell’abisso è un romanzo distopico (una fantascienza molto vicina a noi) che fa muovere i suoi protagonisti adolescenti in uno scenario quasi apocalittico. L’Europa infatti è devastata da una guerra di religione, scatenata da opposti integralismi, razzismo, populismo e furia cieca. Pibe e Stef, i due ragazzini che costituiscono il filo conduttore della storia, imparano a conoscersi mentre cercano di compiere una missione salvifica. L’autore, Pierre Bordage, uno dei più importanti autori di sci-fi francesi, se non il più importante, ha immaginato questo scenario all’indomani dell’11 settembre, e sconvolge quanto il suo racconto sia ancora drammaticamente attuale. Allora, se la letteratura, compresa quella di genere – come il giallo -, ha la vocazione di raccontare noi, il nostro tempo, la nostra storia, L’angelo dell’abisso è un pezzo di letteratura da non perdere. A tradurre questo romanzo incalzante e provocatorio, abbiamo chiamato l’amico Christian Pastore, al quale chiediamo qualche dettaglio in più sul testo.

Ciao Christian, hai raccolto con entusiasmo la sfida di tradurre questo libro corposo e avvincente, dandone da subito un giudizio positivo: qual è stata la tua prima reazione nella lettura?

Anche se allora non immaginavo di tradurlo, ho letto per la prima volta L’Angelo dell’Abisso una quindicina d’anni fa, e ai tempi a colpirmi era stata più che altro la struttura dell’intreccio. Alla storia di Pibe e Stef che attraversano un’Europa allo sbando, infatti, si accompagna in parallelo la storia di molti altri personaggi, a cui capitolo dopo capitolo l’autore passa il testimone di protagonisti della narrazione, fino a comporre l’affresco di un mondo malauguratamente possibile. Quando mi è stata proposta la traduzione e l’ho riletto, invece, a colpirmi è stato il constatare che le ipotesi di Bordage si sono fatte nel frattempo meno remote. Quando Bordage ha scritto il libro, a parlare di chiudere confini erano in pochi, oggi sono in molti e hanno un largo seguito, tanto che a volte ci riescono perfino. Bordage mostra, fra le altre cose, cosa potrebbe succedere se simili politiche si realizzassero pienamente.

In effetti L’angelo dell’abisso è un romanzo dalle atmosfere cupe, notturne, cariche di pericolo e di angoscia che ricordano il Philip Dick di Una svastica sul sole, per esempio: come hai lavorato sulla lingua per rendere quell’ambientazione?

Lo stile di Bordage sa essere molto descrittivo senza compromettere la fluidità dell’azione, ma rendere gli ambienti fisici non è stato poi così complesso, perché in questo senso la sua scrittura è trasparente, priva di ambiguità, ed è compiutamente evocativa. Più difficile è stato rendere l’ambientazione attraverso i numerosi personaggi, che sono al pari dei luoghi sfaccettature di quel mondo.

Bordage è un ottimo narratore di genere, che qui però, come dicevi, non si limita alla pura fantascienza ma lavora anche molto sui personaggi, attraverso dialoghi, interazioni profonde, scambi: tu hai fatto un gran bel lavoro nel renderli in italiano. Come sei riuscito a trasmettere le emozioni dell’originale?

Stef e Pibe a parte, moltissimi personaggi sono protagonisti di capitoli concatenati e indipendenti al tempo stesso. Sono personaggi eterogenei, quindi ogni capitolo racconta una diversa storia con un diverso linguaggio, o se non altro evoca un’atmosfera propria. Le emozioni erano lì, a volte nette e a volte più sfumate. Per renderle, ovviamente, c’era da comprendere il punto di vista del personaggio di turno, spesso autore o vittima di crudeltà efferate, comprenderlo a partire dal suo passato. Ho cercato di mettermi di volta in volta in certi panni, e certi panni possono essere particolarmente scomodi da indossare. Sempre che sia riuscito davvero a rendere certe emozioni, dunque, questo non è stato facile.

E infine una domanda più generale: hai tradotto anche la raccolta Respiro di Ted Chiang (ne abbiamo parlato l’anno scorso) e sicuramente ti muovi agevolmente nel mondo del fantastico. Che cosa pensi della nuova ondata di romanzi, racconti, film e serie tv distopici che stanno avendo tanto successo negli ultimi tempi?

Che sono troppe le fotocopie e pochi gli originali, prima di tutto, come sempre succede quando un genere prende piede. Perché il genere distopico ha preso così piede? Molti dettagli rappresentati a partire da classici come 1984 di Orwell o Il Mondo Nuovo di Huxley, si sono poi trasformati in realtà. Spesso le profezie più cupe mettono in guardia dalle derive del presente, e allo stato attuale gli equilibri del mondo sono, o sono percepiti, vacillanti come non mai. A molti interessa sapere come potrebbe andare a finire la storia se. Parlo della storia di tutti, la storia con la maiuscola. A guardare il mondo negli ultimi tempi, poi, è facile avere l’impressione che le distopie, semplicemente, siano un nuovo realismo.

L’angelo dell’abisso di Pierre Bordage, traduzione intervista Le Monde

«La fantascienza affronta temi planetari»
26 maggio 2019

Le Monde: La fantascienza francese ha un debole per la distopia. Fin dagli anni Settanta esiste una corrente molto impegnata: il ruolo dello scrittore di fantascienza è anche politico?

Pierre Bordage: C’è anche una parte di divertimento nel racconto, alla quale tengo molto. Se devo suscitare delle riflessioni nel lettore, voglio che passino attraversano le avventure dei miei personaggi. Desidero che il lettore si senta trascinato dalla storia e portato a farsi delle domande in modo naturale. Non voglio imporre le mie idee. Per me, la fantascienza è una letteratura graffiante, deve divertire, far riflettere e sollevare questioni filosofiche. Nella space opera per esempio, proiettandosi nello spazio-tempo, si interroga la natura stessa dell’essere umano.

Le Monde: Che ruolo può avere la fantascienza nella narrativa concettuale?

Pierre Bordage: Secondo me, se le macchine prendono il nostro posto, è proprio perché non abbiamo ancora pienamente raggiunto il nostro status di umani. Intendo dire che la macchina viene a compensare certe lacune sulle quali sarebbe interessante riflettere. Credo che l’uomo non abbia mai veramente raggiunto lo status di uomo. E le macchine rischiano di sottrarcelo prima del tempo. Nei miei romanzi cerco di riabilitarci. Fin da bambino ho sempre teso alla spiritualità, una spiritualità libera dai sistemi di pensiero dogmatico delle religioni. In quella libertà fondamentale credo si compia davvero la nostra umanità.

Le Monde: La fantascienza è stata in anticipo di cinquant’anni, poi di trenta, poi di cinque… come si scrive oggi, quando l’evoluzione tecnologica è più veloce dell’immaginazione?

Pierre Bordage: Bisogna passare al fantasy (ride).

Le Monde: Le intuizioni distopiche della sci-fi hanno spesso la sfortunata tendenza ad avverarsi. Di fronte alle difficoltà del discorso politico a rinnovare i suoi concetti e a suscitare nuovi desideri, la fantascienza può avere un ruolo illuminante?

Pierre Bordage: Mancano persone capaci di invogliare ad andare fino in fondo alle cose, di rivoluzionare tutto per raggiungere uno scopo. Oggi, nessuno ha uno scopo.

Le Monde: Davanti a questa constatazione, non è finita l’epoca degli allarmi? Invece di continuare a produrre tanti racconti post-apocalittici e distopici, perché la fantascienza non esplora di più le vie del desiderio?

Pierre Bordage: È molto difficile raccontare l’utopia. Tutti i racconto mitologici partono da una constatazione negativa, mettono in scena la virtù della prova: questa logica di percorso iniziatico si ritrova nella sci-fi e nel fantasy. L’utopia invece non permette questo percorso. A meno che non si racconti l’evoluzione verso l’utopia. D’altro canto, la fine del mondo è descritta dappertutto, in tutti i testi antichi. È una parte integrante della nostra cultura. Questa tendenza alla distopia, piuttosto, pone la questione della responsabilità dell’autore: i nostri scritti preparano o denunciano gli eventi? In altri termini, poiché le parole hanno un grande potere, quando scriviamo prepariamo il lettore a certi scenari futuri? Può essere.

Intervista a Elena Loewenthal – Alchimisti di parole

Intervista a Elena Loewenthal, traduttrice di Avevo 15 anni, per Alchimisti di parole

Il 21 gennaio, a una settimana dal Giorno della Memoria, pubblichiamo Avevo 15 anni, il memoir di Elie Buzyn, uno degli ultimi testimoni ebrei delle persecuzioni naziste. A parte le commemorazioni, che comunque rimangono sempre utili (basti pensare all’ondata di odio che ha colpito Liliana Segre quest’inverno, scatenata quanto meno dalla mancanza di memoria), il racconto di questo medico novantenne è una lettura commovente, il trionfo della vita e della giustizia sulla morte e la sopraffazione. A tradurlo con grazia è stata Elena Loewenthal, che abbiamo intervistato per Alchimisti di parole.

Elena, oltre a essere una traduttrice di grandissima esperienza sei anche autrice di saggi e romanzi: come ti avvicini al testo di un altro scrittore per tradurlo? Quali sono le tue tecniche di traduzione?

La traduzione è lavoro di “artigianato”, è un corpo a corpo con il testo. Difficile dire quali tecniche siano da usare: io faccio una sorta di analisi del periodo, frase per frase, e poi provo a immaginare come si sarebbe espresso l’autore se avesse avuto a disposizione l’italiano e non la sua lingua, che nel mio caso è quasi sempre l’ebraico. È un lavoro di intuizione, fantasia e metodo, la traduzione.

Nel caso di Avevo 15 anni, la particolarità del testo è che si tratta di un memoir, di una storia vera e non di un lavoro di finzione: che tipo di approccio hai di fronte alla voce dell’autore?

Ecco, era proprio l’impegno a “sentire” la sua voce, ad ascoltarla. È un testo che va raccontato, immaginando di ascoltare l’autore che si racconta. Certo che in casi come questo, di memoria della Shoah, è sempre difficile, se non impossibile mettersi nei panni di chi ha vissuto e subìto esperienze così tremende, in fondo intraducibili.

In particolare, Elie Buzyn appartiene alla ormai purtroppo esigua schiera dei testimoni dell’Olocausto: tu stessa ne hai scritto (penso per esempio al romanzo che abbiamo pubblicato qualche anno fa, Lo strappo nell’anima). Hai dovuto scavare anche nella tua memoria di ricercatrice per verificare i fatti storici?

Il confronto con l’evidenza dei dati storici è sempre indispensabile. Ma nel caso di memorie della Shoah io credo che la cosa più importante sia proprio cercare una condivisione emotiva più che razionale con quegli eventi, che vanno al di là di ogni ragione storica. Una condivisione emotiva fatta di partecipazione ma anche e forse soprattutto della consapevolezza che non riusciremo mai a comprendere che cosa passa nella testa e nel cuore di un sopravvissuto: c’è un confine invalicabile fra quel dolore e la nostra capacità di capire – di noi che non siamo stati laggiù.

Credo che il tuo coinvolgimento nel tradurre questo libro sia speciale, poiché appartieni alla comunità ebraica. E siccome sei anche giornalista, ti chiedo un commento più generale sull’importanza di continuare a leggere testimonianze come questa.

È fondamentale continuare a tramandare il racconto. Come ha detto Primo Levi, il fatto che sia successo non ci mette al riparo, anzi, moltiplica le probabilità che accada di nuovo.

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