Intervista a Paloma Sánchez-Garnica

In occasione dell’uscita di Ultimi giorni a Berlino, la nostra editor Linda Poncetta ha intervistato l’autrice Paloma Sánchez-Garnica.

 

Prima di incontrarla, Paloma Sánchez-Garnica era per me “solo” una scrittrice pluripremiata, tra le più importanti del panorama spagnolo contemporaneo. Quando, nei giorni scorsi, è stata nostra ospite a Milano, dove ha incontrato giornalisti, librai, agenti e bookblogger, ho conosciuto una donna colta, decisa, intraprendente, che non ha paura di esporsi.

Parlare con lei è stato piacevole e illuminante, mi è venuta voglia di rileggere i suoi romanzi perché so che ora li apprezzerei ancora di più, sapendo dello scrupoloso lavoro che li precede e dello spirito che anima la mente che ci sta dietro.

In occasione dell’uscita del suo ultimo libro, Ultimi giorni a Berlino, disponibile online e in tutte le librerie, le ho fatto qualche domanda.

In tutti i tuoi romanzi, la Storia, con la S maiuscola, è un personaggio fondamentale, ma tu non ti definisci autrice di romanzi storici.

Nei miei libri non prendo un fatto o un personaggio storico come elemento centrale: pongo i miei personaggi in un’epoca determinata e ne racconto la vita quando si incontra con una determinata legge, una tradizione, dei principi morali e una precisa pressione sociale. È la gente comune a essere protagonista.

La mia intenzione è comprendere e far comprendere un’epoca attraverso gli occhi di persone come noi. Il contesto sociale, storico, geografico, infatti, ci cambia, tutto quello che ci circonda ci condiziona. E ai personaggi di Ultimi giorni a Berlino è toccato vivere in un’epoca molto dura: due guerre mondiali, crisi e totalitarismi.

Chi è il tuo preferito?

È una domanda difficile, ciascuno ha le sue peculiarità. Ci sono Claudia e Krista, le due donne protagoniste, complementari e contraddittorie, che rappresentano la realtà dell’epoca: una coscientemente antinazista, l’altra convinta che il nazismo sia la salvezza per la società, per la nazione, per il suo Paese umiliato, afflitto da crisi e problemi. Poi ci sono gli uomini, personaggi buoni ma trasformati dall’ideologia: Eric Villanueva, che ha una storia tutta particolare; il padre di Yuri, che preferisce assumersi la colpa contro di sé perché suo figlio mantenga l’immagine che ha di sua madre. Tutti loro hanno un po’ della mia ammirazione.

Il tuo ultimo romanzo è ambientato principalmente nella capitale tedesca, come il precedente, Il confine segreto dei ricordi. Sei molto legata a questa città?

Berlino mi ha sempre affascinata molto. Ci sono stata per la prima volta nel settembre del 1989, insieme a mio marito: avevo ventisette anni e per Madrid quello era il momento della liberazione, della movida, della libertà, dopo la fine del franchismo. Il passaggio in auto da una parte all’altra della città fu molto angoscioso, non sapevamo il tedesco e ci sembrò di viaggiare nel tempo. Quaranta giorni dopo, assistemmo in televisione alla caduta del muro e quello fu il momento storico che avrei voluto vivere. A partire da allora, ho seguito l’evoluzione del Paese, l’unità e la ricostruzione e mi ha sempre affascinata come la città abbia saputo imparare dalla storia, sia stata distrutta più volte e ogni volta sia stata in grado di ricostruirsi. È una città perfetta per essere raccontata in un romanzo.

Credi che in Ultimi giorni a Berlino ci siano delle somiglianze con la situazione politica attuale?

Alla fine dell’Ottocento, con la Belle Époque, l’Europa visse un’epoca di sviluppo, di scoperte, di innovamento scientifico e delle comunicazioni. Poi, i nazionalismi provocarono la Prima guerra mondiale, il cui esito destabilizzante fu causa di quella successiva, dopo l’apparizione sulla scena politica di personaggi mediocri. Oggi, siamo nella medesima situazione, come alla fine della Belle Époque: abbiamo vissuto per mezzo secolo in prosperità, poi ci siamo trovati ad affrontare una crisi sanitaria, economica e politica. Siamo vulnerabili e una società vulnerabile è facilmente manipolabile. Per questo dobbiamo contrastare i politici mediocri ed estremisti che stanno prendendo piede in Europa, affinché si garantisca l’equilibrio e si protegga la democrazia.

In questo i libri possono essere di aiuto alla società.

I libri sono fondamentali. Una società che legge è una società che ha capacità di giudizio, ha un vocabolario più ampio, maggiori capacità di analisi, è una società meno manipolabile che può sfuggire a un potere che pretende di guidarla da una parte o dall’altra. La lettura è uno strumento potentissimo e alla portata di tutti.

Parlando invece del processo di scrittura: come ti documenti per scrivere i tuoi romanzi?

Principalmente con la lettura. Quando ho un’idea e un’epoca in mente, per comprenderla leggo tutti i libri tradotti in spagnolo che la raccontano: saggi, romanzi, resoconti, testimonianze e diari della gente che l’ha vissuta. Poi guardo film e documentari sull’argomento. Trascorro molti mesi pensando, prendendo appunti a mano, immedesimandomi nelle situazioni. Una volta che mi sono immersa nella mentalità di quell’epoca, arriva il momento in cui sento la necessità di mettermi a scrivere. E durante la fase di scrittura sono molto disciplinata, mi metto nel mio ufficio e scrivo.

Hai una routine?

L’ispirazione viene scrivendo. Nessuno mi impone niente, quindi devo impormi io di lavorare. All’inizio mi costa molto, non sono sicura di niente almeno fino a pagina cento e mi capita di scartare quello che ho già scritto, perché non sono convinta o la storia non mi appassiona, quando non voglio sapere cosa succede ai personaggi che sto conoscendo.

[ndr. Curiosità: l’autrice è di Madrid, ma ha una casa vicino a Malaga, a Marbella, sul mare, che è il suo buen retiro per scrivere].

C’è qualcuno che ti aiuta durante questa fase?

Mio marito è il compagno perfetto, il mio primo lettore. Gli scrittori si sentono speciali, unici, ma serve equilibrio: quando sono euforica o, al contrario, affranta, ne parlo con lui. Lui legge e insieme discutiamo molto fino a trovare una soluzione che convinca entrambi.

E com’è invece il rapporto con la tua editor?

Lavoriamo insieme dal 2010, dall’uscita della Cattedrale ai confini del mondo. Il nostro rapporto è molto personale, quasi mi conosce meglio di me, almeno dal punto di vista narrativo. Lei non mi pone alcun limite, né di tempo, né di argomento, e mentre scrivo non mi chiede nulla. Quando la storia è pressoché completa e strutturata, comincio a lavorare con lei. Riesce a cogliere la sostanza dei personaggi, di cui parliamo per ore, come se li conoscessimo davvero, e mi aiuta a lavorarci senza che la mia vanità si senta lesa, una cosa che è molto importante per un autore. Sa come prendermi, come farmi arrivare a cambiare qualcosa senza impormelo.

Cosa significa per te essere una scrittrice donna in Spagna?

Siamo in molte donne a scrivere in Spagna. E molte sono le donne che comprano e leggono libri. In generale, però, c’è la tendenza a giudicare con pregiudizio quello che scrivono: si crede che le donne scrivano per le donne, principalmente libri banali, facili. Il serio, al contrario, è ciò che è difficile, impossibile da capire, quindi tradizionalmente attribuito agli uomini. Ma in fondo, se un libro viene pubblicato e ha successo, non è perché è stato scritto da un uomo o da una donna, ma perché è un buon libro e piace ai lettori.

[ndr. Paloma mi ha confessato di non sopportare la categorizzazione di romanzi femminili: «Vuol dire che un uomo non può leggerli?» mi ha chiesto, provocatoria. In effetti, come darle torto?]

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