RICORDANDO TONI MORRISON di Sarah Ladipo Manyika

Ero a Londra quando ho saputo che Toni Morrison era morta: ho camminato fino a una chiesa di Peckham, e mi sono seduta su una panca vuota al suo esterno. Volevo il silenzio, ma desideravo anche sentire il suono delle campane, come a celebrare una scrittrice potente la cui voce riecheggiava distintamente nella mia testa.

Ricordo quella domenica di Pasqua, nel 2017, quando passai un pomeriggio a casa di Toni – e disse di chiamarla Toni. Ci raccontò del romanzo a cui stava lavorando. Voleva intitolarlo Justice. Ricordo come sedeva eretta e magnifica, tutta vestita di nero, dai pantaloni al caffetano al cappello di lana, in attesa che l’intervista iniziasse.

Disse che in Justice c’era un padrone di schiavi di nome Goodmaster che imponeva loro il suo nome. Gli schiavi tengono il nome tanto detestato per potersi ritrovare più facilmente nelle generazioni successive. Tre dei loro discendenti sarebbero stati i suoi personaggi. Li aveva chiamati Courage, Freedom e Justice. Ricordo di aver pensato che questa è una battaglia non ancora finita e mi sono chiesta se ha terminato di scrivere Justice e se la giustizia sarà mai compiuta.

Quando, nel corso dell’intervista, ho citato James Baldwin, lei ha sospirato con affetto chiamandolo Jimmy. Ricordo quello che ha scritto alla sua morte – i doni che le aveva fatto: tenerezza, coraggio e linguaggio. Anche lei ci ha ci ha regalato qualcosa, soprattutto il coraggio di scrivere le nostre storie senza badare allo sguardo di nessuno.

Ricordo il discorso di accettazione del Nobel e le righe che ho imparato a memoria: «Il linguaggio non potrà mai descrivere con esattezza la schiavitù, il genocidio, la guerra. E nemmeno dovrebbe aspirare all’arroganza di poterlo fare. La sua forza, la sua felicità stanno nel protendersi verso l’ineffabile.» In quel discorso, raccontò la parabola di una vecchia donna, e ricordo l’intensità delle domande che le vengono poste. «Dicci che cos’è essere donna affinché sappiamo che cos’è essere uomo. Che cosa si muove ai margini. Che cosa significa non avere casa in questo luogo. Venire separati da tutti quelli che si conoscono. Che cosa significa vivere al limitare di un paese che non sopporta la tua presenza.» Toni lo scrisse nel 1993 – potrebbe essere nel 2019.

Sono andata nel suo bagno degli ospiti quella domenica di Pasqua e l’ho trovato pieno di fotografie di scrittori che avevo sempre ammirato – Wole Soyinka, Gabriel García Márquez, Baldwin – e una lettera del Comitato del Premio Nobel nella quale annunciava la sua decisione di conferirle l’alta onorificenza. C’era anche una Notifica di Rifiuto alla Pubblicazione dove si diceva che Paradiso, il romanzo di Morrison, era bandito dagli Istituti di Correzione del Texas per tema di «disagi tra i detenuti come scioperi o rivolte.»

Ricordo solo quanto ci ha fatto ridere quel giorno. Le ho chiesto che cosa le aveva sussurrato il presidente Barack Obama dopo averle conferito la Presidential Medal of Freedom e di essere rimasta sorpresa quando ha risposto che non se lo ricordava. Mi sono resa conto poi che lei, maestra del racconto, stava semplicemente spiegando che quando si è incantati da qualcuno, ciò che rimane nella memoria non è quanto ha detto ma come lo ha detto. Fu suo figlio, dopo, a chiedere a Obama che cosa aveva mormorato nell’orecchio di sua madre. «I love you», aveva risposto lui.

Ricordo alla fine, di averle detto che mio figlio voleva conoscere il segreto della sua magnifica scrittura. «Digli che sono un genio», e sorrise. Ricordo quanto abbiamo riso.

(pubblicato in The Washington Post il 9 agosto 2019)

Alessandro Portelli ricorda Toni Morrison

Era il 2006 e successe una cosa sorprendente: Toni Morrison accettò di venire in Abruzzo per accettare il Premio Penne, che veniva assegnato ogni anno a un vincitore di premio Nobel. Non so come fecero a convincerla, ma venne. Il rituale del premio precedeva che l’opera del vincitore fosse discussa e presentata da critici di cinque continenti (per l’Europa c’ero io, per l’Africa venne Cristina Ali Farah, non mi ricordo chi venne dall’Australia) e che una delle sue opere fosse rappresentata in forma teatrale dagli studenti del liceo locale.

Toni Morrison era straniata e un po’ sospettosa. Non capiva bene dove si trovava, arrivava da Parigi e il contesto semirurale di Penne era molto diverso dalla realtà cosmopolita a cui era abituata (ma dalla finestra dell’hotel, dotato di diverse stelle in meno di quelli in cui la ospitavano altrove, si vedeva il Gran Sasso). Quando Laura Montanari (allora mia studentessa, e promettente musicista, le fece ascoltare come aveva musicato un brano di Beloved, battè le mani ma si preoccupò di chiederle se aveva chiesto i diritti. Non credo che Laura abbia mai più eseguito quella canzone). Ma complessivamente era curiosa, ascoltava gli interventi, ed era disponibilissima con i ragazzi delle scuole. Devo avere ancora qualcuna di quelle foto con lei sorridente e loro che la circondano affettuosi.

Il momento più emozionante venne la sera in cui i ragazzi del liceo presentarono con l’aiuto di un regista di cui non riesco a ricordare il nome –  la loro versione teatrale di Jazz – sicuramente non il più facile da mettere in scena dei romanzi di Toni Morrison. Lo fecero partendo dalla musica, ed ebbero l’intelligenza di usare musica in cui si riconoscevano direttamente: fu allora che scoprii Vinicio Capossela. E partirono da una cosa che sapevano fare benissimo: ballare. Jazz diventò un balletto scenico senza parole su seduzione e morte, alleggerito dalla grazia dei ragazzi e reso intenso dal linguaggio dei loro corpi. Alla fine, Toni Morrison si alzò in piedi e disse: chiunque ha fatto una cosa del genere è un genio.

Io avrei voluto portare  quei ragazzi a Roma. Ma il Teatro Ateneo non aveva soldi e non ci riuscimmo. Me ne è rimasto il rimpianto per un lavoro di valore che ha vissuto una sola sera; ma mi è rimasta anche l’emozione di vedere Toni Morrison sciogliere infine dubbi e disorientamenti e sentirsi a casa davanti a un gesto artistico creativo dove riconosceva il senso profondo del suo libro.

Alchimisti di parole, intervista a Silvia Fornasiero

La misura delle nostre vite è una raccolta di frasi e aforismi tratti dai libri di Toni Morrison. Sono parole in cui si distillano molte delle caratteristiche della scrittrice: il suo stile poetico, a tratti aspro, spesso musicale, sempre folgorante per originalità e sintesi; il suo senso della letteratura sostanzialmente come ricerca della verità – umana, letteraria, filosofica, politica – e quindi come responsabilità personale di chi scrive; il suo rigore e la sua intransigenza ma anche la sconfinata tenerezza per gli esseri umani. Leggere queste frasi è un ripasso per chi la conosce e uno stimolo per chi ne ha sentito parlare ma non ha ancora trovato il tempo di scegliere un romanzo attraverso il quale avvicinarsi alla sua opera. Considerando che Morrison è stata anche e soprattutto una paladina dei diritti degli afroamericani, ma che i suoi romanzi parlano di madri e figlie, di mariti e mogli, di sopraffazione e libertà. Parlano, insomma, di tutti noi.

A introdurre questo libro è stata chiamata Zadie Smith, la cui prefazione è stata tradotta da Silvia Fornasiero, traduttrice anche di una larga parte del lavoro di Morrison. Perciò abbiamo chiesto a Silvia qualche impressione in più sulla raccolta.

La misura delle nostre vite mi è sembrato innanzitutto un omaggio (doveroso) alla grande scrittrice scomparsa la scorsa estate, un modo di offrire ai lettori gli spunti per una lettura più approfondita. Che impressione hai avuto, da traduttrice e profonda conoscitrice di Toni Morrison?

Confesso che appena ho avuto in mano il libro la mia prima sensazione è stata quella di un certo spaesamento, perché la scrittura di Toni Morrison non è quasi mai aforistica, bensì ricca, sfaccettata, fluviale (quante volte ho sudato per sciogliere certi suoi periodi!), perciò non ero abituata a considerarla per frammenti isolati, come sono quelli proposti nella raccolta. Tuttavia, procedendo nella lettura, mi sono trovata a riconoscere al volo alcune frasi, a scoprirne altre come se fosse la prima volta, e a restare senza fiato davanti alla bellezza, alla profonda verità di altre ancora. Mi auguro quindi che questa collezione di “assaggi” possa invogliare i lettori a scoprire, o riscoprire, le opere di questa grande scrittrice nella loro interezza, per poterle apprezzare come meritano.

Le frasi sono scelte secondo un criterio tematico, in linea di massima, e i temi spaziano dai sentimenti più umani, come l’amore, la gelosia, il senso di solitudine, alle riflessioni sulla scrittura come atto di responsabilità. Morrison ha questo approccio nella sua opera in generale?

Certamente. La sua aspirazione, come ha scritto, è sempre stata quella di produrre letteratura che fosse “indubbiamente politica e insieme irrevocabilmente bella” – una delle sue frasi che amo di più proprio perché racchiude in poche parole la sua concezione del proprio lavoro di scrittrice: una persona chiamata a scrivere per la comunità (nel suo caso, prima di tutto la comunità afroamericana), a descrivere il mondo nella sua crudezza, ma anche nel suo splendore, e insieme a ricordare a tutti i lettori che l’umanità è qualcosa di più e di meglio di ciò che spesso riesce a essere. Il discorso di accettazione del premio Nobel costituisce forse il punto più alto della riflessione di Toni Morrison sul significato della letteratura, e non a caso il titolo di questa raccolta è tratto da una delle frasi più memorabili di quel discorso: “Moriamo. Forse è questo il significato della vita. Ma produciamo il linguaggio. E forse è questa la misura delle nostre vite”.

Negli ultimi mesi, molti circoli di lettura si sono avvicinati a Toni Morrison, quasi sempre attraverso il suo capolavoro, Amatissima. Quale altro libro consiglieresti al neofita, e perché?

Tra i più recenti consiglierei Il dono, che risale ai primi anni della colonizzazione europea dell’America per cercare le radici del razzismo e della schiavitù attraverso la vicenda toccante di una giovane schiava, Florens, per la quale l’autrice ha inventato una lingua personalissima, ibrida, intensamente poetica. Il mio preferito dei primi romanzi di Morrison è invece Canto di Salomone, scritto in memoria del padre: un viaggio del protagonista alla ricerca di sé, alla scoperta del valore della comunità e del passato; un testo talmente complesso, profondo e variegato che è difficile presentarlo in poche parole, e che contiene una descrizione folgorante del colore nero che da sola, per me, vale la lettura.

E infine: hai tradotto la prefazione di Zadie Smith, che mi è sembrato un lucido ma anche personalissimo omaggio a Toni Morrison, punto di riferimento letterario e non solo per ben più di una generazione di scrittrici e scrittori. Che cosa pensi di questo articolo?  

Come si vede dalla data in calce, 7 agosto 2019, si tratta di un testo composto a caldo, a pochi giorni dalla morte di Toni Morrison, e la commozione sincera di Zadie Smith traspare chiaramente dalle sue parole. Insieme ad altre testimonianze che ho avuto modo di leggere in quei giorni, mi ha aiutato a comprendere a livello concreto, umano, un aspetto che prima non avevo colto pienamente, e cioè il grande debito di riconoscenza che molti giovani neri avvertono nei confronti di Toni Morrison per avere narrato la loro vita, proposto loro un modello cui ispirarsi, per essere stata tra le prime a ridare dignità alla cultura afroamericana, prima pressoché assente nel panorama culturale degli Stati Uniti. Come scrive Zadie Smith, “Toni Morrison si è messa al servizio della sua gente, e pochi scrittori sono stati chiamati a farlo, e lo ha rivendicato come un privilegio”. Credo che il suo omaggio appassionato a Toni Morrison sia un’introduzione eccellente alla lettura della raccolta.

La prima volta che ho incontrato Toni Morrison

Sono stata fortunata: la prima volta che ho incontrato Toni Morrison, quasi vent’anni fa, ero con la direttrice editoriale di Frassinelli di allora, Carla Tanzi, che le era amica, e per una sottintesa legge transitoria Mrs Morrison ha considerato benevolmente anche me. L’ammirazione leggermente reverenziale che avevo provato da studente e da lettrice di questa maestosa e inflessibile scrittrice premio Nobel – inflessibile prima di tutto verso se stessa, la sua scrittura, le sue responsabilità intellettuali – è diventata con gli anni un rapporto professionale e personale sempre più sfaccettato. Sempre più permeato dall’affetto, condiviso, in una sorta di sorellanza ideale, con le colleghe – quasi tutte donne – che hanno lavorato con lei. Per questo è diventata Toni, per noi ragazze della Frassinelli, la donna che ci ha fatto vedere il mondo semplicemente con altri occhi. Magari non è facile, almeno non sempre, ma è così che si diventa grandi.

La grandezza di Toni Morrison si misurava anche in riconoscimenti e nella foto che ho scovato tra le altre (veramente sgranata, lo so, scusate) lei è sulla pedana della cattedra di un’aula della Sorbona che riceve una laurea honoris causa. Ci sono i professori, c’è il ministro della cultura e c’è lei, seduta, dignitosissima nella toga giallo oro che è la divista dell’università parigina e pronta per il suo speech di ringraziamento.

Dopo, insieme alla sua editrice francese Dominique Bourgois, siamo andate a rifocillarci: un’altra sorellanza, chiacchiere, risate, un bicchiere di vino e nuovi progetti. Lei aveva sempre un nuovo progetto da condividere, un nuovo libro da scrivere, una storia mai detta da raccontare. Era magia ascoltarla, ci rimane la magia di leggerla.

Restiamo a casa, restiamo svegli, leggiamo.

Toni Morrison
5 aprile 2020

Anche oggi vogliamo ricordare Toni Morrison, e questa volta lo vogliamo fare attraverso uno dei suoi ultimi libri, L’origine degli altri. Nel libro sono raccolte alcune lezioni che Morrison ha tenuto a Harvard, nelle quali l’autrice descrive, racconta e spiega come è nato nella storia e come continua a nascere il bisogno di Alterità. Un testo veramente affascinante, lucidissimo e accuratamente documentato su un aspetto della natura umana al quale non pensiamo di continuo, e che pure passa attraverso le nostre parole di tutti i giorni (bullismo, razzismo, sessismo, non mancano altri ismi). A commentare le riflessioni illuminanti di Toni Morrison, poi, ci sono l’introduzione di Ta-Nehisi Coates e quella all’edizione italiana di Roberto Saviano, che conferma l’universalità del discorso della scrittrice. Il testo è breve, se avete un po’ più di tempo ve lo consigliamo con tutto il cuore. E per incoraggiarvi, qui di seguito vi proponiamo un breve estratto.

Restiamo a casa, restiamo svegli, leggiamo.

Gli estranei non esistono. Esistono solo versioni di noi stessi: molte non le abbiamo accolte, dalla maggior parte cerchiamo di proteggerci. Perché l’estraneo non è straniero, è lì per caso; non ci è alieno ma di lui ci si ricorda; ed è la casualità dell’incontro con una versione già nota – benché non riconosciuta – di noi stessi a scatenare un moto di allarme. A indurci a respingere quella figura e le emozioni che provoca – specie se queste emozioni sono profonde. Ed è per lo stesso motivo che desideriamo possedere, governare e amministrare l’Altro. Per romantizzarlo, se possiamo, così da farlo rientrare nel nostro gioco di specchi.

La visione implacabile di Toni Morrison

LA VISIONE IMPLACABILE DI TONI MORRISON

L’occhio più azzurro, pubblicato cinquant’anni fa, ha tracciato un nuovo percorso nel panorama letterario americano.

Hilton Als, New Yorker 27 gennaio 2020

Prima di chiudere il libro, l’autrice si sofferma su alcuni pensieri finali intrisi di rimpianto, vergogna e orrore. Il libro? Il romanzo d’esordio di Toni Morrison, L’occhio più azzurro, che quest’anno compie cinquant’anni. Alla fine della storia, la povera Pecola Breedlove è stata abbandonata da tutti, dopo essere stata trattata con disprezzo per gran parte della sua vita; ed è rimasta a vagare per le strade in preda alla follia. Spettacolare anche rispetto ad altre opere prime attinenti al gotico – Mentre morivo (1930) di William Faulkner, o La saggezza nel sangue di Flannery O’Connor o L’uomo invisibile di Ralph Ellison (entrambi pubblicati nel 1952) —, Il libro di Morrison ha tracciato un nuovo percorso nel panorama letterario americano, mettendo al centro della storia le giovani ragazze nere.

Come tutti i personaggi de L’occhio più azzurro, Pecola vive a Lorain, in Ohio, dove Morrison, morta lo scorso agosto, era nata nel 1931. Quando incontriamo Pecola, ha undici anni ma è già abituata al dolore. La sua unica fuga dall’abuso emotivo che subisce in famiglia e a scuola è il sogno. E il sogno è questo: che qualcuno, forse Dio, le conceda il dono degli occhi azzurri. Il tipo di occhi azzurri che Pecola ha visto nelle immagini della star del cinema Shirley Temple. Il tipo di occhi azzurri che illuminano il viso della ragazza sull’involucro delle sue caramelle preferite, Mary Janes. Pecola sente, o è stata indotta a sentire, che se avesse gli occhi azzurri, alla fine, sarebbe libera, libera dalla sua imperdonabile oscurità, da ciò che la sua comunità ha etichettato come bruttezza molto prima che potesse guardarsi allo specchio e determinare da sé chi e cosa fosse. Alla fine, Pecola acquisisce o crede di acquisire gli occhi azzurri. Ma in quelle strazianti immagini finali, Claudia MacTeer, la vivace narratrice di nove anni di Morrison, vede ciò che Pecola non può: come la sua follia, il risultato di tutto quel rifiuto, assomigli al resto della città. Nonostante ciò, poche persone, a parte Claudia, testimoniano. Farlo significherebbe riflettere criticamente sulla società che li ha formati e dover cambiare. E la verità è che quando lasciamo Pecola, che raccoglie rifiuti ai margini del mondo, anche noi potremmo provare un certo sollievo nel non dover più vedere ciò che vede Morrison, la sua visione profonda e inesorabile di ciò che la vita può fare agli emarginati.

Morrison ha detto di aver scritto L’occhio più azzurro perché voleva leggerlo. Ha iniziato il libro nel 1965, quando aveva trentaquattro anni. Si è laureata in inglese alla Howard University, dopo di che ha conseguito il Master alla Cornell. Morrison ha continuato a insegnare alla Texas Southern University, e poi a Howard, dove ha lavorato a un racconto su una ragazzina nera che voleva gli occhi azzurri. Il personaggio era ispirato a una bambina che aveva conosciuto in Ohio, che aveva voluto quegli occhi e aveva deciso che Dio non esisteva quando non glieli aveva dati. Morrison mise la bozza in un cassetto e continuò la sua vita. Nel 1958 sposò l’architetto giamaicano Harold Morrison; sette anni dopo, la coppia divorziò e Toni rimase sola, con due bambini e il suo lavoro di editor presso LW Singer, una casa editrice di Syracuse.

La solitudine e il dolore sono spesso i primi strumenti di un’artista, e Morrison si è messa al lavoro ricordando e scrivendo del mondo da cui proveniva: la povertà, le storie di fantasmi che suo padre, un saldatore, raccontava ai figli. In un certo senso, L’occhio più azzurro si basa su quei racconti e onora gli anni in cui, senza saperlo, Morrison si stava preparando a diventare un’artista. Parte del genio di Morrison aveva a che fare con il sapere che i nostri sé feriti sono una manifestazione di una società malata, il corpo malato d’America, il cui malessere razziale continua a produrre Pecole. La puoi trovare ovunque. È la donna dalla pelle scura che cerca di schiarire la carnagione con creme sbiancanti; è quella che si sottopone a un intervento chirurgico per assottigliarsi le labbra o il naso; è la ragazza che indossa lenti a contatto colorate perché il mondo la veda in modo diverso.

Quando sei un bambino, un bambino nero o marrone o giallo o rosso, per lo più non inizi la mattina pensando a come il razzismo ti rovinerà la giornata. Quello che vuoi sapere è chi ti amerà e quali sorprese quell’amore ti porterà quel giorno. È il mondo che porta l’odio alla tua porta di casa ed è l’odio che ti fa nascondere chi sei. Da bambino, ho risposto visceralmente a L’occhio più azzurro, per una serie di motivi, a partire dalla copertina. Morrison, nella fotografia in quarta, sembrava il tipo di persona che la mia famiglia avrebbe potuto conoscere, e se era una di noi significava che forse anche una delle mie quattro bellissime sorelle maggiori avrebbe potuto scrivere un libro. Ora so che la speranza per le mie sorelle era un modo di avere speranza per me stesso, speravo di poter diventare l’artista che volevo essere. Mi sono aggrappato a ogni speranza che ho trovato. Ho sentito la situazione difficile di Pecola nello stomaco, non perché la gente pensava che fossi brutto, ma perché sapevo che, nella mia piccola comunità operaia a Brooklyn, la mia sessualità era considerata brutta. Il mio mondo nero allora (e, per essere sinceri, non è cambiato molto) è definito dalle regole dell’eterosessualità, e una delle poche cose su cui i suoi abitanti erano d’accordo era quanto gli omosessuali fossero spiritualmente abominevoli – nella migliore delle ipotesi, oggetti di derisione. Mi sentivo intrappolato a Brooklyn come Pecola a Lorain. Non avevo un sogno di occhi azzurri, ma sognavo un mondo pieno di cultura e artisti a cui un giorno sarei appartenuto, se, come Toni Morrison, avessi scritto libri.

Morrison aveva trentanove anni quando pubblicò L’occhio più azzurro. Anche se ha affermato in un’intervista del 1981 con Charles Ruas, «Non ho mai voluto diventare una scrittrice, volevo solo diventare un’adulta», è il lavoro di un’artista matura che si è stancata di aspettare qualcun altro per esprimere le proprie opinioni. Nel frattempo, anche la Morrison editor stava guadagnando forza. Quando uscì L’occhio più azzurro, lavorava alla Random House da quasi tre anni. I suoi colleghi non sapevano che era una scrittrice, perché non glielo aveva detto. «Non mi stavano pagando per quello», ha detto una volta. Alla fine, un collega ha individuato una copia de L’occhio più azzurro, e i successivi romanzi di Morrison sono stati pubblicati da Knopf, un imprint di Random House.

Il lavoro di Morrison aveva un obiettivo molto particolare: offrire ai lettori storie di neri, donne e altri personaggi emarginati che non erano stati raccontati prima. Questo desiderio – questa necessità – sembra aver accompagnato Morrison da quando era una studentessa di Howard. Come editor, ha scelto di mettere in evidenza quelle storie. Ora è sorprendente guardare indietro alla gamma dei suoi progetti: un libro sulla cucina del Sud; una storia del Cotton Club; opere di Gayl Jones e Toni Cade Bambara; poesie di Lucille Clifton e di Henry Dumas, ucciso a trentatré anni da un poliziotto della metropolitana di New York City; l’autobiografia di Angela Davis; e, nel 1974, The Black Book destinato, come L’occhio più azzurro, a mostrare vere vite di neri, dalle orribili navi schiaviste del Cinquecento secolo all’America del Ventesimo secolo.

Per me, L’occhio più azzurro e The Black Book, opere di altissima qualità, erano prove tangibili del fatto che essere un artista significava armarsi della verità – da dove vieni e dove speri di andare – e che l’ipocrisia era nemica dell’arte. Morrison mi ha mostrato cosa era possibile.

https://www.newyorker.com/magazine/2020/02/03/toni-morrisons-profound-and-unrelenting-vision

Ricordando Toni Morrison

Morrison, 5 marzo 2020

Non so se capita anche a voi, ma in questi giorni di cambiamenti delle abitudini, dettati dall’emergenza e anche dalla preoccupazione del contagio, ho cominciato a vedere il posto in cui vivo in modo diverso. Il posto in cui vivo è Milano, per non rimanere nel vago, però mi sembra che sarebbe successa la stessa cosa ovunque. I ritmi rallentati, il traffico quasi inesistente, la gente sparsa, anche la sera, anche nel weekend. Ognuno avrà cominciato a fare le sue considerazioni, come me, qui e ora vi dico solo che tutto questo – ritmi, persone, movimento – mi ha fatto venire in mente un brano che avevo letto in Jazz, di Toni Morrison. Tra parentesi, Jazz è un romanzo ambientato nella Harlem degli anni Venti, una storia di emigrazione dalla campagna alla città, anzi alla Città, che modella l’animo umano e ne influenza i rapporti con gli altri. Una storia di amore e rabbia raccontata a ritmo di jazz, appunto. È un libro bellissimo, che ve lo dico a fare.

Comunque, per tornare al brano di cui vi parlavo, mi chiedo se anche a voi la nuova geografia che vi circonda ha fatto venire in mente qualcosa del genere, vi ha ricordato qualcosa che avete letto o visto, o che state guardando o leggendo. A proposito, che fate di nuovo, nel tempo in più, se ne avete? Ieri ne parlavamo tra amiche: oltre a continuare a lavorare, magari da casa, c’è chi si ritaglia un momento per passeggiare coi figli, chi rinfresca il suo tedesco arrugginito, chi legge i libri che aveva lasciato indietro. E voi?

Ed ecco il brano (in verità ci sono pagine notevoli sulla città, questo è solo un assaggio):

«Città è come vuole che sia: prodiga, calda, spaventosa e piena di amabili estranei. Nessuna meraviglia che si scordi dei ciottoli dei torrenti, e se non dimentica del tutto il cielo, ci pensa solo come a un frammento d’informazione sull’ora del giorno o della notte.»

Toni Morrison, L’occhio più azzurro

Continua il nostro memoriale mensile di Toni Morrison, questa volta attraverso il primo romanzo che l’autrice ha pubblicato nel 1970, L’occhio più azzurro. La storia raccontata nel libro è quella di Pecola Breedlove, una bambina nera nell’Ohio del 1941. Povera, affidata a una famiglia che non è la sua, spesso derisa, Pecola comincia a sperare di essere diversa, di assomigliare alla ragazzina modello dell’epoca, perché in quella bellezza vede una possibilità di riscatto. E quella bellezza ha gli occhi azzurri. Il desiderio innocente di una creatura vulnerabile e sola segna l’inizio di una parabola tragica.

Pubblicato quasi cinquant’anni fa, L’occhio più azzurro è un libro che si legge ancora con pena e rabbia, perché pena e rabbia si provano nel leggere l’innocenza violata, la ferocia del forte verso il debole, l’avversione razziale, anche all’interno della stessa comunità nera. Una comunità che proprio negli anni Sessanta, attraverso battaglie ostinate (culminate con l’assassinio dei suoi leader come Martin Luther King e Malcolm X), stava riconquistando la propria dignità, contro segregazione e razzismo (di quegli anni è lo slogan Nero è bello). Si può immaginare l’accoglienza al libro della Morrison: sostanzialmente il silenzio. Ma naturalmente, la nostra autrice non ha certo smesso di scrivere e di raccontare storie vere che la maggioranza delle persone tendeva a nascondere in qualche armadio in soffitta. Fino a vincere il premio Nobel.

E allora, in questi tempi che sembrano altrettanto complicati, vale la pena leggere o rileggere il romanzo di Pecola Breedlove, che adesso dovrebbe essere felice di avere gli occhi neri.

Toni Morrison, L’importanza di ogni parola

5 ottobre 2019

Sono passati due mesi dalla morte di Toni Morrison, e come sempre sembra un secolo. Non abbiamo smesso di sentire la sua mancanza, ma neanche di riflettere su quello che ci ha lasciato. I suoi romanzi, dall’Occhio più azzurro a Prima i bambini, i suoi saggi e le lezioni sulla letteratura americana, le sue pièce teatrali che un giorno arriveranno anche qui. Perché se è vero che Toni Morrison è stata una scrittrice afroamericana che ha scritto e parlato soprattutto del rapporto tra bianchi e neri, in letteratura e non solo, è anche vero che ha scritto di rapporti di potere, che generano violenza. Potere e violenza non hanno razza, sono categorie dello spirito universali. E allora quello che ci ha lasciato Morrison è una traccia per riflettere ma soprattutto arrabbiarsi, finalmente, insorgere contro potere e violenza.

Lo dice bene lei stessa nei testi che sono raccolti ne L’importanza di ogni parola e alla fine, soprattutto per noi che pubblichiamo i suoi libri da trent’anni, la cosa più giusta è consigliarvi di leggerli, senza troppi commenti. Come dice Toni: il linguaggio è la misura delle nostre vite.

Toni Morrison, il nostro ricordo

Toni Morrison (Lorain 18 febbraio 1931 – New York, 5 agosto 2019)

Il 5 agosto scorso si è spenta a New York Toni Morrison, una delle più grandi scrittrici americane, autrice di romanzi e saggi nei quali è riuscita a mostrare il mondo, e non solo quello statunitense, da un punto di vista diverso da quello predominante, cioè da quello degli uomini bianchi. Un’impresa straordinaria per una donna nata all’inizio degli anni Trenta in provincia, cresciuta in una società segregazionista e arrivata alla scrittura a quasi quarant’anni. E d’altro canto, Toni Morrison è – difficile usare il tempo passato – una donna straordinaria: prima afroamericana a vincere il premio Nobel per la letteratura, riconoscimento di un lavoro formidabile, potente, di scavo nella storia di un popolo intero. Un lavoro culminato in un libro che si chiama Amatissima, la storia di una schiava in fuga che uccide la figlia pur di sottrarla a un destino simile al suo. Quella di Sethe, la schiava, è una storia vera, una delle tante storie di disumanità che Morrison ha contribuito a disseppellire mostrando i lati oscuri della Storia Americana. Da L’occhio più azzurro, il suo primo romanzo, fino a L’importanza di ogni parola, la raccolta di saggi pubblicata proprio nel 2019, Toni Morrison ha sempre tenuto fede a una poetica della responsabilità: per lei scrivere non è stato un mero atto estetico ma un gesto politico, ovvero un gesto, appunto, di responsabilità sociale. Perché la letteratura è questo: “Moriamo.” Ha detto la scrittrice nel suo discorso di accettazione del Nobel. “Forse è questo il significato della vita. Ma produciamo il linguaggio. E forse è questa la misura delle nostre vite.”

Abbiamo deciso allora di dare seguito all’eredità di Toni Morrison.

Da oggi, 5 settembre, quindi dedicheremo ogni mese uno spazio alle parole della scrittrice, a partire da quelle tratte dal suo romanzo più famoso, Amatissima.

Non era una storia da tramandare.

Così la dimenticarono. Come si fa con un sogno spiacevole durante un sonno penoso. Ogni tanto, però, quando si svegliano si sente cessare il fruscio di una gonna e le nocche che passano su una guancia nel sonno sembrano appartenere a chi dorme. A volte la fotografia di un amico intimo o di un parente — osservata troppo a lungo — cambia e vi si vede muovere qualcosa di più familiare del volto caro che c’è lì. Possono toccarlo, se vogliono, però non lo fanno, perché sanno che se lo facessero le cose non sarebbero più le stesse.

Questa non è una storia da tramandare.

Dietro al 124, vicino al fiume, le sue impronte vanno e vengono, vanno e vengono. Sono così familiari. Se un bambino o anche un adulto vi mettessero i piedi dentro, combacerebbero. Se li togliessero, scomparirebbero di nuovo, come se nessuno avesse mai camminato lì. Ora ogni traccia è scomparsa e ciò che è stato dimenticato non sono solo le impronte, ma anche l’acqua e quello che c’è là sotto. Il resto è il tempo. Non l’alito di chi è dimenticata e inspiegata, ma il vento nei grondoni, o il ghiaccio che in primavera si scioglie troppo in fretta. Solo il tempo. Di sicuro non si sente reclamare a gran voce un bacio.

Amatissima.

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