25 novembre 2020 – Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne

Il 25 novembre 1960 le tre sorelle Mirabal, dominicane, vengono rapite, stuprate, torturate, strangolate a morte. Andavano a trovare i mariti dissidenti in prigione, e a ucciderle furono gli agenti del servizio militare. Di storie come quella delle sorelle Mirabal, storie di violenza, sopraffazione e esercizio del potere, se ne sono raccontate tante altre, negli ultimi sessant’anni, e molte altre, sicuramente, sono rimaste nel silenzio.

Il 28 gennaio 1856, nell’inverno più freddo a memoria d’uomo, Margaret Garner, incinta, scappa dalla piantagione dove è tenuta schiava insieme ai suoi quattro figli piccoli. Quando sente che i suoi inseguitori sono vicini, ben decisi a riprendersi la loro proprietà, Margaret, detta Peggy, sceglie di fare l’unica cosa che risparmierà ai suoi bambini il suo stesso destino. I suoi aguzzini la cattureranno, la metteranno sotto processo ma non la accuseranno di omicidio. Perché lei ha solo rubato delle cose. Questa è una storia che il silenzio non ha potuto sopraffare. A raccontarla, in un romanzo unico, potente, umanissimo, è stata Toni Morrison. E il romanzo è Amatissima. Perché, dice Morrison: “Non c’è tempo per la disperazione, per l’autocommiserazione, non serve il silenzio, non c’è spazio per la paura. Noi parliamo, noi scriviamo. È così che si torna alla civiltà”.

Due donne: intervista a Silvia Fornasiero per Alchimisti di parole

Intervista Alchimisti di parole – Silvia Fornasiero a proposito di Due donne

Pubblicato per la prima volta da Knopf nel 1929 con il titolo Passing, Due donne è il secondo e ultimo romanzo di una scrittrice la cui stessa vita potrebbe essere materia di romanzo.

Nata dall’unione di una giovane donna danese e di un afroamericano nativo dei Caraibi, Nella Larsen è vissuta sempre a cavallo tra mondi diversi, mai suoi. La madre, risposatasi con un compatriota, allontanò presto quella figlia nera, e i soggiorni in Europa non furono certo accoglienti. L’università per neri dovette sembrarle un ghetto, e severissimo, per cui la lasciò. Diventò infermiera per poi lavorare tra la Grande Guerra e l’epidemia di spagnola. Finalmente, col matrimonio, Nella si stabilisce a New York, ed entra a far parte del vivacissimo mondo della Harlem Renaissance. Scrive racconti, due romanzi. Poi il silenzio, di nuovo. Qualcosa di questa donna senza radici, forse fragile, certamente intelligente e talentuosa, traspare proprio dalle pagine del suo libro: le passioni, le paure, le scelte. Allora chiediamo alla sua traduttrice, Silvia Fornasiero, di raccontarci il suo lavoro e le sue riflessioni su Due donne.

Due donne/Passing è un romanzo scritto alla fine degli anni Venti, eppure estremamente moderno: come ti sei avvicinata alla lingua e al contesto utilizzati da Larsen?

Se prima di affrontare qualsiasi romanzo è importante documentarsi sull’autore e sul mondo in cui è ambientata la narrazione, in questo caso ho avvertito più forte il peso della responsabilità, poiché mi era stata affidata la ritraduzione di quello che ormai, a quasi un secolo dalla sua composizione, è considerato un piccolo classico della letteratura afroamericana.

Ho ricercato diverse edizioni originali del testo, arricchite da apparati critici preziosi, letto Quicksand, l’unico altro romanzo pubblicato da Nella Larsen, e rispolverato le mie nozioni della letteratura di quel periodo. Ho anche consultato altre ritraduzioni uscite in anni recenti di opere contemporanee a Passing, in cerca di un confronto su alcune scelte di impostazione.

Dal punto di vista linguistico, quella di Larsen è una prosa estremamente limpida, caratterizzata da un’abbondanza di avverbi e dall’uso insistito di virgole e incisi; una lingua colta, anche: come ha fatto osservare un critico, le protagoniste del romanzo si esprimono in un inglese impeccabile, mentre sono Jack Bellew, il marito razzista di Clare, e in misura minore Carl Van Vechten, il raffinato intellettuale bianco amico di Irene, a impiegare espressioni più colloquiali – un’altra manifestazione della sottile ironia di Nella Larsen nei confronti degli stereotipi sugli afroamericani e della famigerata «questione razziale».

A questo proposito, la difficoltà principale nel tradurre è stata rendere quei termini e quelle espressioni che fanno riferimento a una realtà che non ha corrispettivi nella cultura italiana, e cioè la segregazione razziale stabilita per legge, il razzismo non strisciante bensì elevato a sistema. Per non attenuare o edulcorare, ho scelto di rendere questi termini ed espressioni nella maniera più aderente possibile, affidandomi all’intelligenza e alla sensibilità dei lettori. Per esempio, quando si dice delle zie bianche di Clare che «They could excuse the ruin, but they couldn’t forgive the tar brush», cioè che potevano perdonare che il fratello avesse «rovinato» una ragazza mettendola incinta, ma non che lei fosse nera, ho reso così: «Potevano scusare la rovina, ma non perdonare la pennellata di catrame». In maniera analoga, la battuta autoironica di Brian: «Did you ever go up by nigger-power?» è divenuta: «Ci sei mai salita con ‘l’ascensore dei negri’?» – cioè a piedi?

Sono riuscita invece solo parzialmente a rendere la differenza, notevolissima, fra i termini black, Negro e nigger: poiché in inglese Negro ha una connotazione neutra, e si riferisce a individui «di razza nera», l’ho reso talvolta con questa perifrasi, talvolta semplicemente con «nero», al pari di black, mentre ho riservato lo spregiativo «negro» per la traduzione di nigger.

Tutto il romanzo gioca sull’equilibrio delicato nei rapporti tra le due protagoniste, Irene e Clare. Un equilibrio instabile soprattutto a causa della scelta di Clare, il passing: ci puoi dire brevemente di che cosa si tratta?

 Passing vuol dire «farsi passare per bianchi»: cioè, da parte di un afroamericano dalla pelle chiara, nascondere la propria origine e fingere appunto di essere bianco. Questa pratica è comprensibile solo nel contesto di una società che possedeva termini specifici per indicare individui neri «per un quarto» o «per un ottavo» (rispettivamente quadroon e octoroon), e che arrivò a sancire per legge la cosiddetta one drop rule, per cui era sufficiente possedere una sola goccia di sangue nero – avere quindi magari solo un bisnonno o un trisavolo neri – per essere definiti di razza nera.

E naturalmente il passing trova il suo senso solo in una società segregata, nella quale fingersi bianchi – a costo di recidere ogni legame con la famiglia e la comunità di origine – poteva fare la differenza, per l’individuo, in termini di libertà e diritti nella vita quotidiana, di posizione sociale e di carriera lavorativa, ma, a livello ancor più basilare, in termini di incolumità personale, là dove fin troppo spesso bastava un sospetto per scatenare un linciaggio. Era certamente un gioco pericoloso (a meno che non fosse praticato solo occasionalmente, per convenienza, come fa Irene nel romanzo), ma probabilmente valeva il rischio, se è stato calcolato che oltre 350.000 neri siano «passati» nei primi vent’anni del Novecento. E il fatto che, a distanza di un secolo, negli Stati Uniti essere neri costituisca ancora un fattore di rischio è a mio parere uno dei motivi per cui questo romanzo è così attuale.

L’ambientazione nella New York degli anni Venti è splendida, e riporta alla memoria la grande letteratura di quegli anni, Fitzgerald prima di tutti. Ti sei confrontata con altri classici per tradurre Due donne?

Sì, certamente, in particolare con le recenti traduzioni delle due opere più celebri di Fitzgerald, Il grande Gatsby di Franca Cavagnoli e Tenera è la notte di Elisa Pantaleo; a causa della chiusura delle biblioteche durante il lockdown ho dovuto invece accontentarmi solo di qualche passo della traduzione di un classico della letteratura afroamericana come Uomo invisibile di Ralph Ellison, a cura di Carlo Fruttero e Luciano Gallino.

Il confronto più interessante e più fecondo è stato senz’altro quello con Il grande Gatsby: i due romanzi, scritti a pochi anni di distanza, sono ambientati nel medesimo periodo e nella stessa città, e appartengono entrambi alla grande corrente del Modernismo; non solo, si possono ritrovare affinità tematiche tra i due testi, nonché individuare un parallelismo tra le figure di Clare Kendry e di Jay Gatsby, a partire dal loro «passare» per ciò che non sono fino al tragico destino che li accomuna. Numerosi studiosi si sono soffermati sul rapporto tra i due romanzi: non ho avuto il tempo di approfondire troppo, ma anche questa volta il lavoro di traduzione mi ha dato l’occasione di arricchire le mie conoscenze.

Nella tua postfazione, interessante e piacevolissima lettura, hai ricostruito un’epoca, la storia della scrittrice e la storia del suo lavoro, e l’hai fatto durante il lockdown: dove sei andata a fare ricerca?

Grazie innanzitutto del complimento! La risposta è molto semplice: online. Ho potuto superare l’ostacolo della chiusura delle biblioteche grazie alla disponibilità di molti testi in rete; in questo senso, è stata preziosa l’iniziativa di un grande database come JStor, che proprio a causa dell’epidemia ha reso liberamente consultabili da chiunque i propri archivi, altrimenti accessibili solo tramite le università. Ho così avuto accesso dal computer di casa a un’ampia varietà di studi dedicati a Passing e a Nella Larsen, che sono stati fondamentali per la stesura della postfazione. Ma non sono mancati anche i contatti umani: ho un debito di gratitudine con Lynn Domina, autrice di una versione annotata di Passing, che ha avuto la gentilezza di rispondere ad alcune mie domande, e con due bibliotecari che hanno consultato per me un’antologia di poesie in cerca di un’eventuale traduzione italiana dell’epigrafe del romanzo.

Il piacere di leggere un libro «di carta» resta per me irrinunciabile, però in questa crisi l’estesa digitalizzazione della letteratura è stata senza dubbio un’ancora di salvezza, insieme alla grande disponibilità e gentilezza delle persone che ho incontrato virtualmente durante la traduzione.

L’ora buca – Valerio Varesi

Questo è un libro che nasce per raccontare la nostra crisi culturale. Volevo parlare della scomparsa dall’odierno orizzonte, di qualsiasi visione prospettica di media-lunga durata. In definitiva dell’assenza di un progetto sociale e di un’idea di società. Il dominio dell’apparenza e della soddisfazione immediata è ormai totale sia in politica che nelle aziende. Ciò consente, specie in politica, l’emergere di parvenu totalmente incompetenti sia sul piano culturale che sul piano amministrativo. In questo si è innescato un processo secondo cui chiunque può fare tutto. Un principio mirabilmente riassunto nei programmi demagogici della politica di oggi che arriva a prospettare l’estrazione a sorte degli amministratori. Ecco che mi è balenata l’idea di raccontare l’ascesa e la decadenza di una di queste meteore, un insegnante che non vuole morire nell’anonimato e decide di soddisfare il proprio desiderio di notorietà. Nel mondo massificato dove gli individui non contano niente, nel livellamento globale, l’unica salvezza è distinguersi, essere riconosciuti perché siamo sconosciuti a noi stessi. Mettendoci una maschera di notorietà possiamo coprire il vuoto che ci spaventa e avere un ruolo. Per ottenerlo siamo disposti a sacrificare anche la nostra vita. Ho voluto così rappresentare il mondo d’oggi. Il mondo in cui le sorti di molti Paesi sono in mano a personaggi così ambiziosi dall’aver iniziato il proprio percorso nei giochi a quiz televisivi o percorrendo il mondo dell’economia prescindendo da qualsiasi scrupolo.

Christian Pastore racconta Respiro di Ted Chiang

L’ultima raccolta di Chiang, Respiro, contiene racconti diversi (nella forma, ma secondo noi omogenei nella sostanza), e noi abbiamo le nostre preferenze. Prima di rivelarle, abbiamo chiesto un commento a Christian Pastore, che lo ha tradotto.

Ted Chiang è ormai un autore di fantascienza citato, discusso e persino letto da una schiera di estimatori talmente folta da trascendere quella già ampia degli appassionati del genere. Potrebbe non essere la prima volta, non mi sono informato accuratamente a riguardo, ma non avevo mai sentito menzionare a un ex-presidente degli Stati Uniti un autore di fantascienza fra le sue letture favorite. Si tratta, va detto, di un ex-presidente non solo di sane letture ma ben diverso da quello in carica, che se mai approcciasse Chiang, temo, troverebbe il suo pensiero sospettosamente articolato e troppo universale. Certo, non sempre la fama di un autore è indicatrice della buona qualità della sua opera, per non parlare della sua originalità, ma Chiang pare aver incontrato una fama sempre maggiore nella maniera più rispettabile, vale a dire senza rincorrerla, racconto dopo racconto e meritoriamente, proprio grazie a pagine colme di straniante unicità, a una prosa sulle prime fredda eppure seducente, e a contenuti che al lettore non rispondono, domandano. Fatta questa premessa, mi risulta difficile commentare uno in particolare dei suoi ultimi racconti come sono stato invitato a fare; è già stato detto molto a proposito di ognuno, quindi senza pretendere di dire nulla d’inedito mi affiderò più o meno al caso, anche se nel racconto in questione il caso non esiste. Qualche tempo fa stavo guardando una serie televisiva che fra i numerosi pregi ha quello di essere composta da pochi episodi, Devs di Alex Garland, e per via delle tematiche trattate non ho potuto non ripensare a un racconto di Chiang, Cosa ci si aspetta da noi. Si tratta di un racconto brevissimo, che al principio potrebbe non spiccare fra narrazioni più articolate come Omphalos, L’angoscia è la vertigine della libertà o Il ciclo di vita degli oggetti-software, o potrebbe risultare meno ammaliante de Il mercante e il portale dell’alchimista, che pure affronta il tema del determinismo e del libero arbitrio. Fra i vari racconti Cosa ci si aspetta da noi è anche quello che, per via della sua concisione, meno si presta a un adattamento cinematografico, ma questo non lo rende meno interessante e a mio giudizio è uno dei più inquietanti che Chiang abbia scritto. Il testo, quattro pagine scarse, non è altro che un messaggio d’allarme lanciato al presente da un futuro prossimo in cui il genere umano si sta estinguendo. L’estinzione incombente non è stata causata da una catastrofe nucleare, climatica o da un’epidemia zombie, bensì, in sintesi, da una forte depressione planetaria che trae origine dalla risoluzione di un dilemma filosofico: l’uomo è artefice del proprio destino o è una marionetta in balia di un destino già scritto? Se ne L’angoscia è la vertigine della libertà Chiang esplora la teoria quantistica dei molti mondi e dota i suoi personaggi di innumerevoli vite possibili, qui come ne Il mercante e il portale dell’alchimista il destino che spetta a chiunque sembra decisamente essere uno solo. Nel racconto ambientato nell’antica Baghdad, tuttavia, il destino di ciascuno è ordito da un dio onnipotente e giusto, dunque nel bene e nel male più facilmente accettabile dai personaggi, mentre in Cosa ci si aspetta da noi di divinità non c’è traccia, non esistono vie del Signore infinite a cui affidarsi o appellarsi. Beffa delle beffe, a svelare in via definitiva all’umanità che il libero arbitrio non esiste non è un grande pensatore o un profeta, bensì uno stupido aggeggio commercializzato come passatempo, una scatoletta simile al telecomando per aprire le portiere di un’automobile, su cui sono presenti solo un pulsante e un led luminoso. Non approfondisco oltre per non guastare la lettura a chi ancora deve leggerlo, aggiungo però che è un raccontino solo nelle dimensioni, in grado di generare un intero romanzo nella mente del lettore, forse, molte riflessioni senz’altro.

A un anno dalla scomparsa di Toni Morrison

A un anno esatto di distanza dalla morte di Toni Morrison, continuiamo a ricordarci di lei con un certo calore, viene da dire quasi con una certa vitalità. Sicuramente per affetto; probabilmente perché in questo anno abbiamo pubblicato altri due libri – la raccolta di saggi L’importanza di ogni parola e il piccolo libro di aforismi La misura delle nostre vite – e quindi abbiamo potuto lavorare su testi nuovi; ma anche perché in questi dodici mesi abbiamo continuato a leggere a proposito di lei. Provate a riguardare le recensioni dei libri degli ultimi tempi: citare Toni Morrison, più che mai, è stato importante per definire il valore di un’opera, per costruire un evidente e inconfondibile quadro di riferimento, per rafforzare la spinta anche morale del lavoro di una scrittrice o di uno scrittore. E non solo di una scrittrice e di uno scrittore afroamericani, anzi. A Toni Morrison si fa riferimento nell’ambito del femminismo (vecchio o nuovo che sia), dell’impegno sociale, delle battaglie civili. Basti pensare alle ultime, ancora indomabili rivendicazioni del movimento Black Lives Matter, che Toni sosteneva con forza riponendo nelle nuove generazioni enormi speranze. Sarebbe davvero brutto deluderla. E invece mette una grande carica di energia raccogliere il suo testimone: rileggendo i suoi libri in questa nuova era di cambiamenti come si fa con i veri classici. Che contengono tutte le parole del mondo meno una: la nostra.

RICORDANDO TONI MORRISON di Sarah Ladipo Manyika

Ero a Londra quando ho saputo che Toni Morrison era morta: ho camminato fino a una chiesa di Peckham, e mi sono seduta su una panca vuota al suo esterno. Volevo il silenzio, ma desideravo anche sentire il suono delle campane, come a celebrare una scrittrice potente la cui voce riecheggiava distintamente nella mia testa.

Ricordo quella domenica di Pasqua, nel 2017, quando passai un pomeriggio a casa di Toni – e disse di chiamarla Toni. Ci raccontò del romanzo a cui stava lavorando. Voleva intitolarlo Justice. Ricordo come sedeva eretta e magnifica, tutta vestita di nero, dai pantaloni al caffetano al cappello di lana, in attesa che l’intervista iniziasse.

Disse che in Justice c’era un padrone di schiavi di nome Goodmaster che imponeva loro il suo nome. Gli schiavi tengono il nome tanto detestato per potersi ritrovare più facilmente nelle generazioni successive. Tre dei loro discendenti sarebbero stati i suoi personaggi. Li aveva chiamati Courage, Freedom e Justice. Ricordo di aver pensato che questa è una battaglia non ancora finita e mi sono chiesta se ha terminato di scrivere Justice e se la giustizia sarà mai compiuta.

Quando, nel corso dell’intervista, ho citato James Baldwin, lei ha sospirato con affetto chiamandolo Jimmy. Ricordo quello che ha scritto alla sua morte – i doni che le aveva fatto: tenerezza, coraggio e linguaggio. Anche lei ci ha ci ha regalato qualcosa, soprattutto il coraggio di scrivere le nostre storie senza badare allo sguardo di nessuno.

Ricordo il discorso di accettazione del Nobel e le righe che ho imparato a memoria: «Il linguaggio non potrà mai descrivere con esattezza la schiavitù, il genocidio, la guerra. E nemmeno dovrebbe aspirare all’arroganza di poterlo fare. La sua forza, la sua felicità stanno nel protendersi verso l’ineffabile.» In quel discorso, raccontò la parabola di una vecchia donna, e ricordo l’intensità delle domande che le vengono poste. «Dicci che cos’è essere donna affinché sappiamo che cos’è essere uomo. Che cosa si muove ai margini. Che cosa significa non avere casa in questo luogo. Venire separati da tutti quelli che si conoscono. Che cosa significa vivere al limitare di un paese che non sopporta la tua presenza.» Toni lo scrisse nel 1993 – potrebbe essere nel 2019.

Sono andata nel suo bagno degli ospiti quella domenica di Pasqua e l’ho trovato pieno di fotografie di scrittori che avevo sempre ammirato – Wole Soyinka, Gabriel García Márquez, Baldwin – e una lettera del Comitato del Premio Nobel nella quale annunciava la sua decisione di conferirle l’alta onorificenza. C’era anche una Notifica di Rifiuto alla Pubblicazione dove si diceva che Paradiso, il romanzo di Morrison, era bandito dagli Istituti di Correzione del Texas per tema di «disagi tra i detenuti come scioperi o rivolte.»

Ricordo solo quanto ci ha fatto ridere quel giorno. Le ho chiesto che cosa le aveva sussurrato il presidente Barack Obama dopo averle conferito la Presidential Medal of Freedom e di essere rimasta sorpresa quando ha risposto che non se lo ricordava. Mi sono resa conto poi che lei, maestra del racconto, stava semplicemente spiegando che quando si è incantati da qualcuno, ciò che rimane nella memoria non è quanto ha detto ma come lo ha detto. Fu suo figlio, dopo, a chiedere a Obama che cosa aveva mormorato nell’orecchio di sua madre. «I love you», aveva risposto lui.

Ricordo alla fine, di averle detto che mio figlio voleva conoscere il segreto della sua magnifica scrittura. «Digli che sono un genio», e sorrise. Ricordo quanto abbiamo riso.

(pubblicato in The Washington Post il 9 agosto 2019)

25 maggio Giornata Mondiale dell’Africa

Il 25 maggio 1963, quasi sessant’anni fa, fu fondata l’Unione Africana, un’organizzazione che mirava a far uscire il continente dalle paludi del colonialismo. Al di là degli esiti politici, di certo quella data ha segnato la fine di un’epoca e la nascita di movimenti culturali, artistici, letterari innovativi e importanti per il mondo intero. Se infatti molti scrittori, nei diversi paesi africani, mettevano in discussione l’uso della lingua coloniale per tornare a quelle autoctone, molti altri invece decisero di farne uno strumento di diffusione delle proprie tradizioni, piegandole alle rispettive esigenze. La straordinaria ricchezza delle lingue, e delle loro varianti, ha dato vita così a letterature vivacissime. Letterature che hanno viaggiato con i loro autori, verso Europa e America soprattutto, quando regimi totalitari e guerre civili li hanno costretti alla diaspora. E che hanno influenzato e alimentato nuove forme – ibride, meticce, giovani, prepotenti – come succede nel mondo musicale. Il romanzo allora non muore mai, risorge anzi dalle proprie ceneri proponendo ai lettori anche la scoperta di mondi poco noti. Nel corso degli anni, abbiamo esplorato (in ottima compagnia editoriale) quindi un’Africa più che geografica, diremmo ideale. Abbiamo pubblicato i Nobel Wole Soyinka, nigeriano che affronta la scrittura con il piglio di un narratore orale, e Toni Morrison, afroamericana che ha voluto dare voce al proprio popolo mercificato e segregato. Abbiamo poi fatto i conti con il colonialismo nostrano pubblicando i romanzi di Nuruddin Farah, somalo che vive in Sudafrica e parla italiano. E Madre piccola, il bellissimo struggente romanzo di Cristina Ali Farah, italo-somala (nessuna parentela), che ha vissuto a Roma (tra l’altro) e ora si è stabilita a Bruxelles. L’anno scorso sono usciti poi Una spia americana di Lauren Wilkinson, newyorchese, che ha scavato nella morte di un Che Guevara africano, e Leopardo nero Lupo rosso, il fantasy dirompente che Marlon James (giamaicano trasferito in Minnesota) ha immaginato come un’epica fondativa dell’Africa. E ora è appena arrivato in libreria Storie della mia città di Sarah Ladipo Manyika, nigeriana che insegna a San Francisco e racconta una donna capace di invecchiare con grazia. Altri ne arriveranno: se è vero, come dice Borges, che siamo la nostra memoria, è anche vero che essa è intessuta delle storie che ci raccontiamo, e che lasciamo ci siano raccontate. Il bello è lasciare che siano sempre diverse.

Di seguito una breve riflessione di Chiara Piaggio, autrice della postfazione di Storie della mia città.

L’intero continente africano è attraversato da un fermento culturale destinato a crescere, fatto di libertà espressive, sperimentazioni e interazioni di linguaggi che trasmettono un’africanità ben lontana da quella che finora l’Occidente ha immaginato. Se la produzione cinematografica ha ormai una storia lunga e consolidata – basti pensare che il Fespaco, il più importante festival del cinema nel continente, è nato nel 1969 e che Nolliwood, l’Holliwood nigeriana nata nei primi anni ’90, è ormai un’industria da 800 mln di dollari – la produzione letteraria ha, al contrario, faticato a farsi spazio. Oggi però, pur con forti differenze su base nazionale e regionale, la produzione editoriale si sta affermando, liberando energie multiformi e inaspettate. Sempre più, insomma, l’Africa si conferma un continente non da aiutare, ma nel quale investire.

Alchimisti di parole, intervista a Annarita Briganti

In questo mese di maggio ancora gloriosamente primaverile, facciamo i primi passi fuor di quarantena e finalmente torniamo in libreria. Uno dei libri che pubblichiamo, il 19 di questo mese, è Storie della mia città di Sarah Ladipo Manyika. Il titolo che gli abbiamo dato, d’accordo con l’autrice, è volutamente alla Paul Auster, perché Sarah racconta uno spaccato di vita urbana attraverso lo sguardo di un personaggio principale, la volitiva Morayo, e di una rosa di altri caratteri che dicono molto di San Francisco – e della California, stato tra i più misti e liberi d’America. D’altro canto, la scrittrice è di origine nigeriana e di cosmopolitismo sa molto. La sua scrittura lieve ma tutt’altro che superficiale è stata tradotta da Annarita Briganti con un’adesione che non pare solo tecnica, ma anche intima. Chiediamo a lei, quindi, di raccontarci come ha affrontato il testo.

Cara Annarita, siamo abituati a leggerti sulle colonne di Repubblica e nelle pagine dei libri che hai scritto, l’ultimo dedicato ad Alda Merini. Anche tradurre è un lavoro d’autore (spesso lo si dimentica), ma guidato dalla lingua di partenza – l’inglese in questo caso. Come ti avvicini al lavoro di traduzione?

Da scrittrice rispetto ancora di più il lavoro degli autori che traduco perché so tutto quello che c’è dietro. So bene quanto lavoro, quanta vita, quanti sacrifici e quanta passione ci siano dietro la stesura di un libro. Per me conta ogni parola della versione originale. Tra me e gli autori che traduco s’instaura un dialogo a distanza. Ci parliamo attraverso la storia che gli altri autori mi offrono e le parole che io trovo per loro in italiano.

Tradurre mi piace moltissimo, le lingue mi piacciono moltissimo, amo lavorare in più lingue e a volte, alla fine della giornata, non so dove mi trovo, sogno nella lingua dalla quale sto traducendo. Per l’inglese poi ho una passione.

Il romanzo di Sarah Ladipo Manyika è realista, racconta una storia e dei personaggi che sono vicinissimi a noi – dalla settantenne indipendente che non si lascia condizionare dai pregiudizi sull’età all’immigrato che cerca un suo sogno americano – ma è anche molto visivo, colorato: come hai affrontato questo aspetto?

È un bellissimo romanzo sulla libertà; sulla libertà di essere se stessi; sull’amore per i libri, che la protagonista considera degli esseri viventi, e la capiamo bene; sulla passione per le macchine e per la velocità, nonostante gli anni che passano e la vista che peggiora; sulla vecchiaia e sulla malattia, temi troppo spesso considerati tabù; contro ogni forma di discriminazione. Morayo ha una dote rara: non giudica gli altri, che si tratti di una donna senza fissa dimora, di un negoziante del suo quartiere, del ragazzo di un call center, di una infermiera, di un cuoco, di un’amica che pure, a un certo punto, la farà stare male o di un uomo che conoscerà nel momento più drammatico di questa storia. È colta, divertente, eccentrica, ha avuto una esistenza, che ricostruiremo dai suoi ricordi, romanzesca, conquista tutti, ha una parola buona per tutti e affronta le cose della vita sempre a testa alta, muovendosi in un’America, e in un mondo, ancora alle prese con il razzismo.

È un libro molto solare, nonostante i colpi di scena drammatici, ma è la vita che, come stiamo sperimentando, ci mette ogni tanto alla prova. La lettura ideale per lasciarsi alle spalle questi mesi bui. Dal punto di vista stilistico ho apprezzato molto come l’autrice faccia parlare ogni personaggio con la sua voce, che è diversa da quella degli altri personaggi. I lettori si divertiranno a guardare gli altri con gli occhi della protagonista. L’importante è non essere indifferenti. Vedere davvero gli altri, “sentirli”, dedicare loro un po’ del nostro tempo.

La protagonista di questo breve romanzo, Morayo, è nigeriana e fa diversi riferimenti al suo paese d’origine. So che sei appassionata di Africa: hai dovuto fare ricerche particolari per tradurre i riferimenti culturali?

Faccio ricerche su tutto quello che salta fuori in un libro, dal cibo ai riferimenti sociali e culturali. Mi preoccupo molto di non tradire lo spirito delle diverse opere che traduco, e lo stile ovviamente. In questo caso nella trama entra anche la Storia recente, con il terrorismo islamico in Nigeria.

L’Africa è affascinante, e merita di essere raccontata senza cliché, come avviene in questo caso. Morayo è un mix di culture. È un simbolo contro il razzismo, contro le discriminazioni, contro la violenza contro le donne. Anche lei ha subito dei traumi, che scopriremo. Ci ricorda che si può essere liberi e indipendenti a qualsiasi età. Inoltre, amo i personaggi che leggono. Anche i miei personaggi sono sempre dei lettori. I libri ci salveranno sempre.

E infine, c’è nel libro una frase, un brano, che hai avuto l’istinto di sottolineare perché ti ha colpito particolarmente?

Morayo, nel giorno del suo compleanno, fa sempre qualcosa che non ha ancora fatto. Quanto abbiamo bisogno di uscire dalla nostra comfort zone. È uno dei messaggi più potenti del libro, stando a attenti però… Capirete leggendo.

 

 

 

Maria Luisa Cantarelli: la missione di Toni Morrison attraverso la narrativa

Maria Luisa Cantarelli, co-traduttrice de L’importanza di ogni parola.

Non ho mai avuto l’onore di conoscere Toni Morrison, ma tengo a sottolineare uno dei tanti aspetti del suo modo di essere e di lavorare che mi sono rimasti nel cuore così come emerge dai suoi discorsi e saggi: l’assoluta determinazione a svolgere con rigore, integrità e onestà la sua “missione”, come lei stessa la definisce, attraverso la narrativa. A dimostrazione, questo brano che ho scelto da L’importanza di ogni parola:

La pratica della scrittura è unica in ciò che esige da me. La ricerca del linguaggio, sia che lo attinga da altri scrittori sia che lo origini io stessa, costituisce una missione. Immergersi nella letteratura non è né una fuga né un metodo infallibile per stare tranquilla. È un confronto costante, a volte violento, sempre provocatorio, con il mondo contemporaneo, con i problemi della società in cui viviamo.

Silvia Fornasiero, il regalo di Toni Morrison ai suoi lettori

Chi traduce è abituato ad ascoltare la voce del testo, per coglierne la cadenza, il ritmo, le sonorità, che poi cercherà di restituire nella propria lingua. Per questo potrà forse sembrare strano – o forse no – che l’aspetto di Toni Morrison a cui vorrei dedicare il mio ricordo sia la voce: la sua voce intendo, che per due volte ho avuto la fortuna di ascoltare anche dal vivo. Se la presenza fisica di Toni Morrison era imponente, maestosa – tanto da incutere quasi timore nell’avvicinarsi a questa signora della letteratura – la voce era diversa: dolce, leggermente roca, melodiosa, capace di incantare chiunque la ascoltasse.

Un grande regalo che questa autrice ha fatto ai suoi lettori, oltre che un segno dell’importanza che attribuiva alla qualità sonora dei suoi testi, è la scelta di leggere personalmente i suoi romanzi per la versione in audiolibro: ascoltandoli, possiamo ancora oggi ritrovare la sua presenza, come se li stesse leggendo dal vivo soltanto per noi.

Per chi volesse provare questo piacere, segnalo un testo particolare, il celebre e bellissimo discorso di accettazione del Premio Nobel, ascoltabile qui: https://www.youtube.com/watch?v=ticXzFEpN9o (La versione italiana è contenuta nel volume L’importanza di ogni parola.)

Ma la registrazione a cui sono più affezionata è quella di A Mercy, il primo romanzo di Toni Morrison che ho avuto l’onore di tradurre: ricordo ancora il senso di meraviglia che ho provato, ormai più di dieci anni fa, ascoltando le parole sulla pagina prendere vita nella sua interpretazione. (L’audiolibro è disponibile qui, per esempio, e si può ascoltare liberamente l’incipit: https://www.kobo.com/us/en/audiobook/a-mercy-5)

Ed ecco infine – per intrecciare la mia voce sulla pagina alla sua – l’inizio de Il dono, nella mia interpretazione:

Non avere paura. Il mio racconto non può farti del male malgrado quello che ho fatto e ti prometto di rimanere sdraiata buona buona al buio – magari a piangere o a vedere ancora il sangue ogni tanto – ma non distenderò più braccia e gambe per alzarmi scoprendo i denti. Mi spiego. Puoi pensare al mio racconto come a una confessione, se vuoi, ma piena di curiosità familiari solo nei sogni o quando il profilo di un cane gioca nel vapore dell’acqua che bolle. O quando una bambola di cartocci di mais su una mensola poco dopo è per terra nell’angolo di una stanza e la cattiveria che l’ha fatta finire lì è evidente. Dappertutto succedono cose anche più strane. Tu lo sai. Lo so che lo sai. Mi chiedo chi è responsabile? Mi chiedo anche sai leggere? Se una femmina di pavone non vuole covare, io leggo subito e, di sicuro, la notte vedo a minha mãe con il suo bambino per mano, mentre le mie scarpe le riempiono la tasca del grembiule. Altri segni ci vuole più tempo per capirli. Spesso ci sono troppi segni, o un presagio chiaro si vela troppo in fretta. Io li metto in ordine e cerco di ricordare, ma molte cose le perdo, come quando non leggo il serpente giarrettiera che si trascina a morire sulla soglia di casa. Lasciami cominciare da quello che so per certo.

L’inizio inizia con le scarpe. Da bambina non sopporto di stare a piedi nudi e chiedo sempre delle scarpe, le scarpe di chiunque, anche nei giorni più caldi. Mia madre, a minha mãe, è scontenta, è arrabbiata per quelle che chiama le mie arie da signorina. Solo le donnacce portano i tacchi alti. Io sono pericolosa, dice, una selvaggia, però cede e mi lascia portare le scarpe buttate via da qualcuno in casa della Senhora, a punta, con un tacco rotto e l’altro consumato e una fibbia sopra. Per questo, dice Lina, i miei piedi non servono a niente, saranno sempre troppo morbidi per la vita e non avranno mai la pianta forte, più dura del cuoio, che la vita richiede.

 Silvia Fornasiero

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