Daniela Volontè: Ti scrivo una canzone

Vi è mai capitato di ascoltare una canzone e di innamorarvene all’istante?

A me, no! Almeno non fino al giorno in cui mio marito mi ha fatto ascoltare una canzone italiana che mi ha completamente stregato.

Ma per farmi capire meglio, devo fare un piccolo passo indietro e spiegarvi che non sono una grande ascoltatrice di musica, anzi… Non vado ai concerti, non canto a squarciagola sotto la doccia e accendo la radio solo quando sono in auto e devo affrontare un lungo viaggio. Non amo quando esco con le amiche e nei pub alzano il volume della stereo, perché non riesco più ad ascoltare chi mi sta accanto. C’è soltanto un momento in cui mi lascio cullare dal ritmo di una canzone: quando scrivo. Infatti, secondo me, per ogni romanzo deve esserci una colonna sonora ben definita.

Da ciò si desume che io e la musica viaggiamo su binari ben distanti, eppure… Appena ho sentito per la prima volta la canzone a cui vi accennavo, ho cambiato completamente prospettiva. Ogni cosa mi ha intrigato di quella canzone e più la ascoltavo, o leggevo il testo, più nella mia testa si faceva largo una storia. Di norma non ho le idee chiare fin dall’inizio circa lo sviluppo di una nuova trama, invece, questa volta il romanzo è nato in una maniera tanto spontanea da stupire anche me. Inoltre, io, che di solito sono ipercritica su ciò che scrivo, ho adorato mettere nero su bianco alcune scene che nella mia testa continuavo a rivedere, come la sequenza preferita di un film amato.

Il risultato finale di questo processo lo metto nelle vostre mani e ovviamente mi auguro che sia un bellissimo “film da vedere”. Se volete conoscere il titolo della canzone che ha ispirato l’intero romanzo, non dovete far altro che leggerlo e arrivare all’ultima pagina, dove la vostra curiosità troverà di sicuro soddisfazione.

Prima che la lettura inizi, non posso che ringraziare tutti coloro che si lasceranno condurre per mano in un mondo fatto di musica e di parole.

Buon viaggio da parte mia e da parte dei Sonder.

Manzoni VS Arrigoni

È possibile che alla base dei Promessi Sposi si nasconda una faida famigliare? Leggendo i documenti sembrerebbe proprio di sì, e affiora addirittura l’ipotesi che Manzoni non fosse del tutto ironico quando affermava di aver ritrovato un vecchio manoscritto “dilavato e graffiato”.


Altoforno alla norvegese https://media.snl.no/media/236012/standard_NJ-003859.jpg [Licenza: CC BY NC 2.0 – Georg Haas/C.A. Lorentzen/Næs Jernverksmuseum]

Gli avi di don Lisander nella zona di Lecco e della Valsassina, infatti, furono a lungo in competizione con la potente famiglia di… don Rodrigo! Avete letto bene, è infatti probabile che il Palazzotto del nobile antagonista di Renzo e Lucia altro non fosse che quello che si trova sullo Zucco di Olate, costruito nel 1570 dalla famiglia Arrigoni.
Il motivo della contesa fra le due enclave, i Manzoni in rapida ascesa, ma non ancora nobili, e gli Arrigoni in lenta decadenza, pare fosse incentrata sul monopolio delle ricche miniere della Valsassina e del commercio del ferro.
Al centro della contesa troviamo lo spietato Giacomo Maria Manzoni e i suoi bravi (sì, i bravi ce li avevano anche i Manzoni!), sospettato tra l’altro di essere il mandante dell’omicidio di Giovanni Arrigoni, assassinato con una archibugiata in un giorno d’estate del 1621, nei boschi sopra Barzio. Ancora oggi nello stemma del paese sono riportati gli stemmi delle due famiglie rivali, il manzo passante e la sigla AR.

Tuttavia. nei Promessi Sposi non si fa diretto riferimento a questa contesa, e la (proto)industria messa al centro della trama non è quella del metallo, ma quella della seta. Lucia era una filandina e Renzo un filatore di seta, due professioni diversissime tra loro, ma già diffuse nel milanese fin dalla seconda metà del Quattrocento, ai tempi di Leonardo Da Vinci e Ludovico il Moro. Il soprannome di quest’ultimo infatti non allude né al colore né alla lotta contro i “Mori”, bensì… ai gelsi! Gli unici alberi adatti a sfamare i bachi da seta, che in dialetto venivano chiamati “moroni”. D’altro canto, storicamente l’industria della seta nel lecchese visse il proprio exploit a partire dalla seconda metà del Seicento e soprattutto nel Settecento, parecchi anni dopo la fine della storia dei due sposi promessi.

Ma i Promessi Sposi non si concludono con il loro matrimonio, bensì… con la Storia della Colonna Infame. Che ha a che fare l’iniquo processo contro gli untori della peste, pregno di superstizioni, con la faida tra gli Arrigoni e i Manzoni? In realtà, moltissimo: ricordate che la peste era entrata nel Ducato di Milano con i Lanzichenecchi passando dalla Valsassina? Ebbene, nel 1630 Ambrogio Arrigoni, Deputato della Sanità per la Valsassina, approfittò della sua posizione per vendicarsi degli avversari di una vita, estorcendo la confessione di Caterina Rozzona, amante di Francesco Manzoni, detto il Bonazzo. L’accusa era quella di aver “unto” la casa del fratello morto di peste, di aver fatto un patto con il diavolo e di aver partecipato a tutte le perversioni del barilotto (nome lecchese del sabba delle streghe) insieme ad altri parenti e amici. Tra questi: Simone Manzoni detto il Gambarello, sua moglie Clara Bossi, il quindicenne Bernardo Boccaretto… e soprattutto il signor Giacomo Maria Manzoni del Caleotto, accusato di essere capo e mandante di tutta la congrega.
Come andò a finire la vicenda? Lo potrete scoprire sulle pagine di Engaged, in cui ho intessuto ferro e seta, combinando le vicende narrate dal Manzoni a quelle da lui taciute, legandole con… un pizzico di magia. E chissà che non fossero proprio queste le “Traggedie d’horrori, e Scene di malvaggità grandiosa, con intermezi d’Imprese virtuose e buontà angeliche, opposte alle operationi diaboliche” contenute nel (vero) manoscritto dell’Anonimo!

Per approfondire:

Pietro Pensa, “Famiglia Manzoni: quel ramo del casato”, 1985, https://pietro.pensa.it/Famiglia_Manzoni:_quel_ramo_del_casato

Lucio Causo, “Mortale contesa nata nel 1600 tra le famiglie Manzoni e Arrigoni per il possesso delle miniere di ferro in Valsassina”, 2011,
http://www.aksaicultura.net/luciocauso/index.php?nohead=1&view=10

Marco Rapetti Arrigoni, “Quando gli avi di Manzoni erano in causa con i miei: alle fonti de I Promessi Sposi”, 2019, https://www.breviarium.eu/2019/08/03/arrigoni-manzoni-fermo-lucia-promessisposi/

eccoLecco, “Palazzotto di Don Rodrigo”, 2022,
https://www.eccolecco.it/i-promessi-sposi/luoghi-manzoniani/palazzotto-didon-rodrigo/

Wikipedia, “Untore”, 2023,
https://it.wikipedia.org/wiki/Untore

Ignazio Cantù, “Le vicende della Brianza e de’ paesi circonvicini”, 1837

Giuseppe Arrigoni, “Documenti inediti risguardanti la storia della Valsassina e delle terre limitrofe”, 1857

Antonio Balbiani, “I famosi untori della peste: seguito alla Colonna Infame di Alessandro Manzoni” (romanzo), 1875

Armando Frumento, “Imprese lombarde nella storia della siderurgia italiana”, volume II, Il ferro milanese tra il 1450 e il 1796, 1963

Giuseppe Farinelli, Ermanno Paccagnini, “Processo agli untori. Milano 1630: cronaca e atti giudiziari”, 1988

Alessandra Dattero, “La famiglia Manzoni e la Brianza”, 1997

Gian Luigi Daccò, “Giacomo Maria Manzoni. Documenti” in «Manzoni-Grossi, Tomo I», 1991

Mauro Rossetto, “Villa Manzoni al Caleotto nelle carte dell’Archivio ManzoniScola”, in «Manzoni-Grossi, Tomo I», 1991

Marco Tizzoni, Pierfranco Invernizzi, Matteo Lambrugo, “Memorie dal sottosuolo. Per una storia mineraria della Valsassina”, 2015

Claudio Paglieri “Il conte Attilio” (romanzo storico), 2023

Inquisitori… inquisiti!

Lo sapevate che spesso a finire inquisiti dal Sant’Uffizio erano… gli inquisitori stessi? E che sono esistiti inquisitori che si sono tassati personalmente per curare e risarcire gli eretici pentiti all’ultimo minuto?
La storia dell’Inquisizione è molto più lunga e complicata di quello che ci viene mostrato nei film, e non fu nemmeno un fenomeno limitato al Medioevo. Si potrebbe dire, anzi, che l’Inquisizione visse il suo periodo più “luminoso” (o oscuro, a seconda dei punti di vista) proprio nella cosiddetta Età Moderna.


Gerard ter Borch (II), “Il supplizio della corda”, 1633-1635 Fonte: Rijksmuseum di Amsterdam, http://hdl.handle.net/10934/RM0001.COLLECT.431172

La leggenda nera di un’Inquisizione fatta di frati sadici che seviziavano in modo orrendo eretici e streghe in realtà è figlia di due epoche diversissime fra loro ma accomunate dalla condanna dell’oscurantismo: l’Illuminismo e il Romanticismo. Il fenomeno storico dell’Inquisizione, o meglio, delle Inquisizioni al plurale (medievale, spagnola e romana), è molto più complesso e variegato di quanto s’immagini… e la sua storia non è ancora finita. Pochi infatti sanno che il Sant’Uffizio non ha mai smesso di esistere nella Chiesa Cattolica, ma ha solo cambiato nome. Oggi è la Congregazione per la Dottrina della Fede.
Ah, ed è un fenomeno esclusivamente cristiano. Gli ebrei e i musulmani non potevano venir indagati dal Sant’Uffizio, perché non potevano essere “eretici”, non essendo mai stati cristiani, salvo il caso dei convertiti e dei finti convertiti. E a Venezia ce n’erano parecchi… ma questo discorso ci porterebbe lontano.
Ma allora che cos’è l’Inquisizione? Per quale scopo sorse? E perché è così difficile darne una definizione?
La risposta alla prima domanda getta luce anche sulle altre. Prima dell’Inquisizione nacquero gli inquisitori e la procedura inquisitoria. Cioè un’indagine segreta e attiva volta a scoprire e combattere l’eretica pravità. In pratica, tutte le deviazioni dall’ortodossia cattolica. E fin qui, in realtà, non c’è niente di nuovo. La Chiesa reprimeva da sempre le eresie, cioè le deviazioni dall’ortodossia stabilita dai concili ecumenici, e lo faceva tramite i vescovi e i loro tribunali.
Intorno al XIII secolo, tuttavia, all’epoca della crociata contro gli Albigesi e del conflitto istituzionale tra l’imperatore Federico II e papa Gregorio IX, si rese sempre più necessario da parte di quest’ultimo ribadire la supremazia della Chiesa in materia di fede, davanti all’imperatore che voleva arrogare a sé la prerogativa di giudicare chi fosse o non fosse eretico. Gregorio IX e il suo successore, Innocenzo III, furono quindi spinti a istituire dei giudizi speciali, gli inquisitores, con lettere d’incarico che li mettevano al di sopra di ogni altro tribunale, almeno per quanto concerneva la lotta contro l’eresia. Questi mandati furono affidati innanzitutto ai neonati frati domenicani (1235) e poi anche ai frati minori francescani (1246).
Restava tuttavia inalterato il potere dei vescovi, che potevano far ricercare, indagare e condannare gli eretici in autonomia. Questo fatto creò molti problemi. Per esempio, se erano in disaccordo, a chi spettava giudicare se una persona fosse o meno eretica? Al vescovo o all’inquisitore? La risposta non era affatto ovvia, e si rese necessaria la creazione di un ente centrale che tenesse traccia di tutti i procedimenti inquisitoriali. Fu così che a Roma nacque il Sant’Uffizio vero e proprio (1542).
Un caso di conflitto di giurisdizione riguarda proprio la storia che narro in Engaged. Nel 1618, don Giuseppe Ripamonti venne accusato di eresia, sodomia (leggi: omosessualità) e negligenza dal tribunale del suo protettore, l’arcivescovo di Milano e cardinale Federico Borromeo. Il Ripamonti, tuttavia, si appellò a Roma e il procedimento si trascinò per quattro anni finché, stremato, preferì confessare alcune delle colpe minori (escludendo quelle di eresia e omosessualità) pur di non dover passare il resto della vita chiuso in carcere, fra continui ricorsi, nel disperato tentativo di provare la propria innocenza.
Ad arrestarlo era stato un certo Fischillario, o Fiscillario. Non un inquisitore. E allora chi poteva essere? Si trattava probabilmente di un “patentato” dell’Inquisizione. Sì, perché nei secoli la macchina del tribunale inquisitorio si era fatta più variegata e complessa e comprendeva ormai vari ruoli: economi, notai, carcerieri e… uomini armati. E come i primi inquisitori avevano avuto un incarico dal papa, così ora gli inquisitori stessi davano mandato, o “patente” di agire a nome loro a degli sgherri armati incaricati, per così dire, di fare il “lavoro sporco”: indagini in incognito, agguati, arresti, perquisizioni e confische.
Allo stesso tempo, si era anche raffinato il sistema di carcerazione, la trascrizione degli interrogatori, e la codifica di come e quando si poteva procedere all’esame rigoroso, cioè, alla tortura. E niente di particolarmente elaborato. il tormento consisteva quasi esclusivamente nei “tratti di corda”, cioè nell’essere sospesi da terra con le braccia dietro la schiena ed essere lasciati cadere e strattonati, in modo da slogare i muscoli e i tendini, con dolori atroci.
Se vi sembra un sistema barbaro e diverso da quello del nostro mondo “civilizzato”, ricordate che non sono passati molti anni da Guantanamo e dai tormenti preventivi agli arrestati sospettati di essere terroristi, e che in molte carceri nel mondo è vietato l’accesso alle organizzazioni mediche e umanitarie. Dite quello che volete contro l’Inquisizione romana (quella spagnola, obiettivamente, era un po’ peggio), ma i detenuti del Sant’Uffizio avevano diritto a un avvocato difensore, a vitto e alloggio (anche se erano tenuti a pagarlo loro stessi) e anche alle visite mediche. Inoltre, godevano del conforto di varie istituzioni benefiche, che raccoglievano donazioni per i carcerati meno abbienti, e avevano anche diritto all’assistenza nel momento in cui fossero stati condannati alla pena capitale. In tal caso, entrava in azione un’apposita confraternita laica, spesso chiamata di San Giovanni “Decollato” (cioè, Decapitato, non partito in volo!), che pagava a proprie spese anche il conforto morale del prigioniero.
Altre confraternite avevano compiti di sorveglianza, di scorta o paramilitari, come quelle dei Crocesignati di San Pietro Martire, che affiancavano o in alcuni casi si sovrapponevano ai “patentati” e ai “famigli” degli inquisitori.
Quanto alle condanne, non sempre erano cruente. Al primo giro, se si pentiva, l’eretico poteva anche solo ricevere una multa e una penitenza. Spesso quest’ultima consisteva nell’indossare un abito con cucita sopra la croce da penitente e stare in ginocchio fuori di chiesa la domenica per qualche settimana di fila.
Le condanne a morte erano invece riservate agli eretici relapsi, cioè ricaduti nell’errore, oppure impenitenti, che si ostinavano cioè a non riconoscere il proprio errore.
Engaged si apre con la scena di Giordano Bruno bruciato vivo sul rogo per eresia, ma il suo fu un caso eccezionale. Molto spesso i condannati venivano strangolati prima che i loro cadaveri venissero dati alle fiamme. Condanne in ogni caso eseguite sempre e solo dalle autorità civili, e mai dalla Chiesa, che con magistrale ipocrisia si mascherava dietro il motto Ecclesia abhorret da sanguine (la Chiesa ha orrore del sangue) e dietro una preghiera ai governatori di aver misericordia del condannato. Nel caso di Bruno, per esempio, la sentenza recitava così: “ti rilasciamo alla Corte di voi monsignor Governatore di Roma qui presente, per punirti delle debite pene, pregandolo però efficacemente che voglia mitigare il rigore delle leggi circa la pena della tua persona, che sia senza pericolo di morte o mutilazione di membro”.
Fra parentesi, il prelato governatore di Roma all’epoca era il milanese Ferrante Taverna, e un altro illustre ambrosiano che si trovava nella Città Eterna era il cardinal Federico Borromeo, in esilio da Milano per dissidenze con il governo spagnolo. Le loro divergenze si appianarono anche grazie alla loro convergenza in tema di caccia alle streghe e agli stregoni… ma questa è un’altra storia.
Il caso di Giordano Bruno è emblematico per capire quanto fosse complicata la situazione inquisitoriale all’epoca. Domenicani, gesuiti, francescani, appelli al papa, finti pentimenti, delatori, lettere segrete… c’è tutto. Tranne lo spazio per parlarne ampiamente in questa sede.
Vorrei concludere invece con un caso curioso che ho scoperto per caso mentre mi documentavo per il romanzo. Nel 1628, un libraio di Venezia specializzato nella vendita di libri proibiti, tale Salvatore Negri, vendette un anello magico a un orefice con il vizio del gioco. Il potere dell’anello era fuori di dubbio perché… be’, perché era stato incantato da un inquisitore! Nello specifico, un francescano chiamato fra’ Bonaventura Perinetti da Piacenza, ex Vicario dell’Inquisizione di Padova. Il francescano, affermava il libraio, aveva intrappolato nell’anello uno spirito demoniaco chiamato “Gabba”. L’orefice, tuttavia, continuò a perdere al gioco e, sentendosi gabbato, denunciò la vicenda all’inquisitore di Venezia, il domenicano padre Girolamo Zappetti da Quinzano. Credete che il Sant’Uffizio procedette contro fra’ Bonaventura? Ma nemmeno per sogno! Anzi, lo troviamo poco dopo come inquisitore di Belluno.
L’Inquisizione, ormai, era diventata una macchina burocratica immensa e, come spesso accade, sembrava più interessata a difendere se stessa e la propria reputazione dagli attacchi esterni che preoccupata di fare luce sulla verità. E in fondo, si trattava forse di materia per un processo inquisitoriale? La stregoneria era stata già da tempo equiparata all’eresia, certo, ma il francescano, in fondo, aveva solo tolto di mezzo un demone confinandolo in un anello. Cosa che nessuno, al tempo, dubitava che fosse davvero possibile.

Per approfondire:
Mario Niccoli, “Enciclopedia Italiana”, 1933, voce sull’Inquisizione, https://www.treccani.it/enciclopedia/inquisizione_%28EnciclopediaItaliana%29/
Riccardo Calimani, “L’inquisizione a Venezia”, 2003
Federico Barbierato, “La rovina di Venetia in materia de’ libri prohibiti. Il libraio Salvatore de’ Negri e l’Inquisizione veneziana (1628-1661)”, 2007
Gianvittorio Signorotto, Claudia Di Filippo Bareggi, “L’inquisizione in età moderna e il caso milanese”, 2009
Vaticano, Congregazione per la Dottrina della Fede, 2015, https://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/storia/documents/rc_c on_cfaith_storia_20150319_promuovere-custodirefede_it.html#LA_CONGREGAZIONE
Edgardo Franzosini, “Sotto il nome del Cardinale”, 2013
Stefano Dei Rossi, “Uno strano inquisitore da inquisire… a Venezia nel 1629”, Una curiosità veneziana per volta n. 119, 2016, http://stedrs.blogspot.com/2016/09/uno-strano-inquisitore-da-inquisire.html
Germano Maifreda, “Io dirò la verità. Il processo a Giordano Bruno”, 2018
Dennj Solera, “Sotto l’ombra della patente del Santo Officio. I familiares dell’Inquisizione romana tra XVI e XVII secolo”, 2020
Dennj Solera, “La società dell’Inquisizione. Uomini, tribunali e pratiche del Sant’Uffizio romano”, 2021

La novella di Stephen King Se scorre il sangue è stata opzionata da Netflix

La novella di Stephen King Se scorre il sangue è stata opzionata da Netflix & John Lee Hancock/Jason Blum/Ryan Murphy, mentre Ben Stiller e Darren Aronofsky se ne sono aggiudicate altre due.

 

Se scorre il sangue, la raccolta di Stephen King che occupa i primi posti delle classifiche fin dalla sua uscita, ha già tre opzioni cinematografiche, mentre una quarta è in trattativa perché coinvolge un personaggio preesistente, protagonista di una serie TV HBO. E visto che King accetta 1$ per opzione, sono 4$ in più nelle tasche del prolifico autore, ai quali si aggiungeranno ben altre cifre al momento della realizzazione.

Netflix, Blumhouse e Ryan Murphy hanno unito le forze per opzionare il primo racconto della raccolta, Il telefono di Mr. Harrigan, con l’adattamento e la regia di John Lee Hancock. Jason Blum, Murphy e Carla Hacken sono I produttori.

Ratto è stato opzionato da Ben Stiller, che ha deciso non solo di produrlo e dirigerlo, ma anche di esserne protagonista.

E la Protozoa di Darren Aronofsky ha opzionato La vita di Chuck. A questo punto, Aronofosky è anche produttore.

Il quarto racconto, Se scorre il sangue, potrebbe seguire una strada diversa, poiché ha per protagonista Holly, la detective visionaria resa indimenticabile da Cynthia Erivo nella serie HBO The Outsider. Nessuna sorpresa quindi, se nel futuro della serie dovesse entrare anche Se scorre il sangue.

Ora, bisogna tornare parecchio indietro nel tempo, e precisamente alla raccolta del 1982 Stagioni diverse, per ritrovare lo stesso numero di opzioni da un solo libro. Stiamo parlando di racconti, e film, leggendari: Il corpo, che è diventato Stand by me di Rob Reiner, un classico; Rita Hayworth e la redenzione di Shawshank portato al cinema col titolo Le ali della libertà, con Tim Robbins e Morgan Freeman; L’allievo, diretto da Bryan Singer e interpretato da due attori del calibro di Yan McKellan e Brand Renfro. L’unico titolo di quel libro che a suo tempo non è arrivato al grande schermo è Il metodo di respirazione. Che la Blum sta realizzando in questo periodo.

Quando ho scritto che King opziona le sue opere per 1$, non ho detto che si tratta di una cifra simbolica e che il contratto prevede molte clausole riguardanti il suo controllo sul lavoro – anche se King tende a non soffocare il processo creativo – e delle scadenze a breve termine, in modo che le sue opere non languiscano nel limbo delle eterne opzioni.

Secondo molti, Il telefono di Mr. Harrigan è il racconto più vicino a Stand by me, con un tocco horror, tanto per gradire. Un ragazzo del Maine fa amicizia con Mr. Harrigan, anziano signore in pensione per il quale comincia a fare qualche lavoretto fin dall’età di nove anni. Ad Harrigan piace regalare al ragazzo dei gratta e vinci, e quando il giovane vince davvero, gli dimostra la sua gratitudine regalandogli il suo primo smartphone. Quando Mr. Harrigan muore, il suo amico gli mette il telefono in una tasca. Poi gli manda un sms, ed è sconvolto nel ricevere una risposta dall’oltretomba.

Marci Wiseman e Jeremy Gold di Blumhouse Television sono i produttori esecutivi di questo che sarà il quarto film Netflix tratto da King dopo Il gioco di Gerald, 1922 e Nell’erba alta.

La vita di Chuck riguarda Charles Krantz, morto all’età di 39 anni per un tumore al cervello e la cui vita è segmentata in diversi capitoli dalle atmosfere soprannaturali.

Il protagonista di Ratto è Drew Larson, uno scrittore frustrato, che ha al suo attivo un racconto molto promettente, relegato ormai a oggetto di studio, perché ogni volta che ha una buona idea, succede qualcosa di tremendo. Quando gli viene in mente di scrivere un western, si chiude in un vecchio rifugio di famiglia nei boschi, ben deciso a portare a termine il lavoro. Durante il soggiorno, però, tra bufere e blocco dello scrittore, Larsen si ritrova a stringere un patto faustiano. Con un ratto. Convinto che tutto sia avvenuto in uno stato di delirio notturno, ben presto scopre invece di aver davvero firmato per il successo, ma in cambio della vita di una persona amata…

Se scorre il sangue ha per protagonista Holly Gibney, detective dell’agenzia Finders Keepers impegnata nel ritrovamento di un cane. Mentre indaga, assiste a un servizio sull’attentato a una scuola e si convince che l’inviato potrebbe essere tutt’altro che imparziale. Oltre che in The Outsider, Gibney è anche nella trilogia di Bill Hodges, la serie con Brendan Gleeson che comprende Mr. Mercedes, Chi perde paga e Fine turno.

 

Fonte: Deadline/Variety.

Una magia… che lascia il segno

Una magia… che lascia il segno Di Beppe Roncari

Come funzionava la magia popolare a inizio Seicento? A differenza di quella colta, praticata da negromanti e alchimisti alle corti dei sovrani, delle pratiche che facevano parte del folklore popolare ci sono rimaste solo testimonianze indirette, nei processi istituiti dalle autorità civili e religiose contro le streghe. E nei manuali degli inquisitori.

Matthäus Merian, Basilicae Philosophicae, in Johann Daniel Mylius, Opus Medico Chymicum, Francoforte, 1618

I gentiluomini dell’epoca, afferma don Ferrante nei Promessi Sposi, studiavano la stregoneria solo “per potersene guardare, e difendere”. E rigorosamente in forma teorica, un po’ come nella classe di Difesa contro le Arti Oscure di Hogwarts, e con la stessa puzza sotto il naso dei “maghi teorici” di Jonathan Strange e il Signor Norrell.
La gente dell’epoca, dunque, si teneva davvero alla larga dalle pratiche magiche? Assolutamente no. Il Manzoni, o meglio, l’Anonimo, ci informa infatti che la magia era una scienza molto “in voga” all’epoca, i cui effetti erano sotto gli occhi di tutti, tanto “da poterli verificare”.
Ma quali erano questi incantesimi e come funzionavano?
Una testimonianza molto interessante, a cui ho attinto abbondantemente durante la scrittura di Engaged, è un codicillo conservato nell’Archivio Storico Diocesano di Milano, su cui sono riportate le “vane osservanze” magiche nella zona di Lecco nella seconda metà del Cinquecento.
“Vane” perché la Chiesa ci teneva ad affermare che il loro potere era puramente illusorio e superstizioso. Salvo poi uccidere veramente coloro che venivano condannati come streghe o stregoni… ma questa è un’altra storia.
Ben 134 scongiuri e incantesimi, frutto della trascrizione della testimonianza orale di 53 persone diverse, per la maggior parte donne.
Ecco un esempio di magia tempestaria contro il maltempo, composta da un gesto, chiamato segnatura, e da una formula di scongiuro:
Falso inimico parteti di qui
ti non ghe, ne fa, ne dì,
in quella val scuria
dove non canta ne gal ne galina
ne nisura creatura
in quella Grigna pelada
dove è la tua masnada.

Confrontiamola con una preghiera a San Giovanni, tuttora diffusa nel Salento (la riporto in italiano):
Alzati, San Giovanni, non dormire,
che sto vedendo tre nuvole venire:
una di acqua, una di vento e una di maltempo.
“Dove lo portiamo questo maltempo?”
“Sotto una grotta oscura, dove non canta gallo, e dove
non brilla la luna
, affinché non faccia del male
a me e a nessun’altra creatura”
.
Una somiglianza strabiliante, non è vero? Ma non c’è da stupirsene più di tanto, considerando che le benedizioni dei preti, contro il maltempo o le malattie del bestiame, non differivano molto dai rituali praticati in segreto, ma nemmeno più di tanto, dalle donne più sagge.
La differenza, spesso, stava proprio nel fatto che i primi erano officiati da figure riconosciute dalla Chiesa ufficiale, mentre i secondi erano praticati… beh, lo avete già capito, dalle “streghe”.
Un’altra forma di magia popolare molto in voga era la legatura, che consisteva nella creazione di nodi simbolici. Una legatura amorosa poteva legare due anime fra loro, ma anche prendere la forma di un maleficio, per esempio “legando” la virilità di un uomo e impedendogli così di avere rapporti sessuali.
Un unico gesto, ma con due intenzionalità diametralmente opposte. La magia bianca, dunque, non era ontologicamente diversa da quella nera. Si trattava piuttosto di una distinzione di natura sociale e morale.
In Engaged ho cercato di ridare vita agli antichi riti e al ricchissimo substrato sociale e culturale da cui provenivano, immaginando solo… che il loro potere non fosse “vano”, ma vero.

Per approfondire:

Fra’ Francesco Maria Guazzo, “Compendium maleficarum”, 1618
Alessandro Manzoni, “I Promessi Sposi”, 1842, capitolo 27
Giuseppe Farinelli, Ermanno Paccagnini, “Processo per stregoneria a Caterina de’ Medici (1616-1617)”, 1989
Natale Perego, “Stregherie e malefici. Paure, superstizioni, fatti miracolosi a Lecco e nella Brianza del Cinque e Seicento”, 1990
Carlo Ginzburg, “I benandanti. Stregoneria e culti agrari tra Cinquecento e Seicento”, 1996
Massimo Priovano, “Vermi, donne che segnano, trasmissione dei saperi magico-religiosi. Una ricerca sul campo nel territorio lecchese”, 2001
Antonio Carminati, “I sègn de bén tra magia bianca e pratica teraputica popolare”, 2019,
http://www.ruralpini.it/I-segni-del-bene.html
Remo Bracchi, “Nomi e volti della paura nelle valli dell’Adda e della Mera”, 2009, https://epdf.tips/nomi-e-volti-della-paura-nelle-valli-delladda-e-dellamera.html
Sapori del Salento, “La candela della candelora”, 2013,
https://saporidelsalento.wordpress.com/tag/per-allontanare-il-cattivo-tempopreghiera-a-san-giovanni/

Sono una strega, non sono una santa

Sono una strega, non sono una santa, di Beppe Roncari

“Tremate, tremate, le streghe son tornate!” Questa vecchia filastrocca per bambini divenne il motto del movimento femminista degli anni Settanta. E non avrebbe potuto essere più appropriato. Per quanto gli storici non siano ancora concordi sull’entità del fenomeno della caccia alle streghe, e sul numero delle vittime, su un punto sono unanimi: furono molte più donne che uomini a essere condannate a sequestro dei beni, a penitenze umilianti e soprattutto al rogo.


Jan van de Velde (II), Strega, 1626, Rijksmuseum di Amsterdam
https://www.rijksmuseum.nl/nl/collectie/RP-P-OB-15.310

Nella Milano dei primi decenni del Seicento, quella del cardinal Federico Borromeo, su nove esecuzioni capitali documentate, otto furono di streghe e una soltanto di uno stregone. Ma si presuppone che le condanne siano state molte di più, dato che le carte dell’Inquisizione finirono anch’esse in fiamme nel 1788, per ironia della sorte. Bruciate per ordine dell’imperatore asburgico!
A esacerbare questo divario tra i sessi contribuisce il fatto inquietante che mentre le donne che praticavano la magia venivano considerate automaticamente malefiche, esseri capaci di macchiarsi dei crimini più efferati, compresi vampirismo e infanticidio, i loro colleghi di sesso maschile, maghi o negromanti che fossero, venivano spesso protetti dai potenti.
Ecco così il paradosso di un mondo in cui Nostradamus veniva onorato alla corte di Francia dalla regina Caterina de’ Medici, mentre una popolana omonima della sovrana, Caterina de’ Medici da Broni, veniva bruciata come strega alla Vetra. L’accusa contro Caterina era di aver lanciato un maleficio di morte sul senatore Luigi Melzi, padre del vicario di provvisione dei Promessi Sposi, che tuttavia sopravvisse benissimo. Dalle carte processuali, però, emerge in filigrana una storia molto diversa: l’anziano padrone si era invaghito di Caterina, con tanto di avances e molestie sessuali… ma questa scomoda realtà non poteva essere accettata, soprattutto perché rischiava di mettere in questione una cosa molto più preziosa della verità, ovvero il patrimonio di famiglia.
Caterina era di estrazione popolare ma istruita, il padre era maestro elementare e le aveva insegnato a leggere e scrivere. E aveva fieramente riconosciuto di essere una strega. Ma era povera, senza una famiglia alle spalle e, oltretutto, laica. La sua sorte sarebbe stata diversa se fosse stata nobile, ricca o religiosa?
Possiamo avvicinarsi a una risposta osservando la vicenda di tre sue omonime: Caterina di Jacopo di Benincasa, meglio nota come santa Caterina da Siena, Caterina Fieschi Adorno, cioè santa Caterina da Genova, e infine Caterina Mattei, la beata Caterina da Racconigi, soprannominata in vita la masca, cioè strega, di Dio.
Tutte queste donne vissero esperienze simili a quelle descritte dalle streghe: il volo notturno, le estasi, l’insensibilità al fuoco o al dolore, miracoli curativi, visioni di angeli e demoni o di atti sessuali sfrenati.
Il confine tra santità e stregoneria era molto più labile di quello che potremmo immaginare, e a volte era solo una questione di fortuna, o di avere gli appoggi giusti, a fare la differenza tra le donne che venivano elevate sugli altari… o sulle pire dei roghi.
La Monaca di Monza stessa, suor Virginia, al secolo la nobile Marianna de Leyva, per giustificarne il voto infranto invocò motivazioni magiche, affermando di essere stata vittima di un sortilegio amoroso da parte del suo amante, Gian Paolo Osio. E di aver cercato a sua volta di sottrarsi alla sua influenza facendo ricorso alla stregoneria. Probabilmente, è solo grazie all’enorme prestigio della sua famiglia e al fatto che vestiva l’abito di monaca benedettina se riuscì a scappare a una condanna capitale, cavandosela solamente, si fa per dire, con la pena di essere murata viva.
Nella scrittura dei Promessi Sposi, Manzoni afferma di aver sfrondato intenzionalmente ogni riferimento all’elemento magico, se si eccettuano poche allusioni, attribuite quasi tutte all’Anonimo. Lucia appare allora, per usare le parole irriverenti e sarcastiche di don Abbondio, un’acqua cheta, una santarella, una madonnina infilzata. Ma… e se la realtà fosse stata diversa? What if Lucia e sua madre Agnese fossero state costrette a nascondere la loro vera natura da un mondo ingiusto e maschilista, che lasciava ben poca scelta a una donna: suora, madre, prostituta o… strega? Tra le pagine di Engaged potrete scoprire una versione alternativa delle loro vicende.

Per approfondire:

Silvia Tenderini, “L’Inquisizione valsassinese: povere rosse a Pasturo…”, 2010, https://www.valsassinanews.com/2010/12/11/domenicaculturalelinquisizione-valsassinese-povere-rosse-a-pasturo/

Ilenia Luongo, “La donna e la sua immagine: santa o strega?”, 2021, https://amantidellastoria.wordpress.com/2021/01/25/la-donna-e-la-suaimmagine-santa-o-strega-di-ilenia-luongo/

Marcello Craveri, “Sante e streghe. Biografie e documenti dal XIV al XVII secolo”, 1980

Leonardo Sciascia, “La strega e il capitano”, 1985

Elisabetta Lurgo, “La beata Caterina da Racconigi fra santità e stregoneria. Carisma profetico e autorità istituzionale nella prima età moderna”, 2013

Dinora Corsi, “Diaboliche, maledette e disperate le donne nei processi per stregoneria”, 2013

Marina Marazza, “Il segreto della Monaca di Monza”, 2014 Marina Marazza, “L’ombra di Caterina”, 2019

Stefania Russo – Non è mai troppo tardi

“Non è mai troppo tardi” è un libro di pancia, scritto di getto, figlio di poche congetture.
Nelle mie intenzioni iniziali Annarita doveva essere la protagonista di un noir anche abbastanza cupo. Solo dopo aver riletto le prime pagine mi resi conto che Annarita possedeva una vena autoironica molto marcata che sarebbe stato un peccato ignorare.
Ed è stato così, lasciando “parlare” Annarita, che è nata la storia narrata in queste pagine, con Olga che non si limita a ricoprire un mero ruolo di contorno, quello della badante schiva e dedita, ma diventa il perno attorno al quale si sviluppa l’intera vicenda, e in un certo senso le dà ragione di esistere.
Eh sì, perché le condizioni di salute di Ada, sua sorella, affetta da una rara forma di neoplasia, peggiorano all’improvviso, e Olga, lontana da lei migliaia di chilometri (Ada vive in Romania, la loro terra d’origine), si trova ad ingegnarsi per racimolare l’ingente somma che consentirebbe a Ada di sottoporsi a una cura sperimentale in Italia.
Per l’affetto e la gratitudine che Annarita prova nei confronti di Olga, non può certo esimersi dal venire in suo soccorso, e così, nonostante i suoi ottantaquattro anni e la sedia a rotelle su cui è costretta a vivere, metterà in piedi un sistema di mutuo soccorso generoso e commovente, che vedrà l’intero complesso residenziale in cui vive, un casermone di cemento a canoni agevolati che lei ha ribattezzato “Il Mostro”, mobilitarsi per onorare la causa.
La stesura di “Non è mai troppo tardi” è stata, per me, motivo di grande passione e divertimento: spero che lo stesso possa succedere ai lettori.

Storie di crimini contro gli animali e di persone che li combattono

Quando ho iniziato a occuparmi di animali erano davvero altri tempi: solo oggi, dopo più di quarant’anni, mi rendo conto di aver trascorso tutta la mia vita adulta in attività legate alla loro difesa. Spinto già da giovane dall’impulso di difendere chi aveva meno diritti, dei più fragili e degli indifesi. Così in un lontano gennaio del 1976 varcai, per la prima volta, la porta della sede dell’ENPA di Milano per fare volontariato. Ancora non sapevo, ovviamente, che avrei percorso tutta la scala gerarchica dell’associazione sino a diventare, nel 1988 il presidente e poi anche il responsabile del Nucleo delle Guardie Zoofile ENPA. Un’attività di volontariato certo, ma che ha impegnato la mia vita quanto un secondo lavoro, portandomi a sacrificare scelte lavorative e tempo libero. Anni in cui occuparsi di animali era considerata una sorta di stravaganza, e in cui gli unici davvero meritevoli di avere una tutela sembravano essere solo cani e gatti. Tutti gli altri animali erano considerati in modo differente, come se appartenessero a un’altra categoria. Nei dibattiti sui cani, popolati allora dall’alta borghesia milanese, era normale vedere signore tanto ingioiellate quanto impellicciate. Senza che questo destasse scandalo.

Con il tempo ho capito quanto fosse importante cercare di fare cultura sui diritti degli indifesi, senza preoccuparmi mai se si trattasse di uomini o animali. Mondi che si toccano, molto più di quanto apparentemente possa sembrare, dove sofferenza e solitudine possono essere compagni di viaggio per tanti. Per questo ho ritenuto fosse importante poter raccontare di tempi recenti ma dimenticati, dove nelle case e nei cortili delle trattorie non era così difficile imbattersi in un orso o in un leone. Tenuti per stupire o per farsi pubblicità: animali privati di ogni dignità e di ogni diritto.

Ho iniziato a studiare, a capire come poter coniugare approccio etico e giuridico, cercando di far capire che l’esistenza in vita si chiamasse, in realtà, sopravvivenza e non benessere. Stare bene, in equilibrio con l’ambiente circostante rappresenta, infatti, uno stato completamente diverso dall’assolvimento dei soli bisogni primari. Non è importante il momento della nascita e nemmeno quello della morte, che per quanto violenta e ricca di sofferenze dura un attimo, rispetto al tempo che un essere vivente trascorre da quando apre gli occhi. Per questo bisogna che la vita abbia qualità, dignità e rispetto dei bisogni di ogni specie.

In questo libro, scritto con l’amica Paola D’Amico, giornalista del Corriere della Sera e grande amica, abbiamo cercato di offrire a chi leggerà spunti di riflessione, dati e resoconti di indagini sui crimini contro gli animali. Senza calcare sulla sofferenza, senza esibire il dolore che allontana il lettore e rischia di rendere inutile lo scrivere. Speriamo di esserci riusciti, di poter aver regalato una visione diversa del mondo animale, spesso legato a quello criminale.

Cercando di far comprendere quanto la nostra esistenza sia legata a filo doppio con quella di tutti gli esseri viventi che popolano il pianeta e con l’ambiente che ci ospita. Per evitare sofferenze a uomini e animali, per non ricadere in periodi terribili come questo della pandemia di Covid19, nata per l’irresponsabilità di uomini che hanno operato scelte molto poco sagge, andando così a stuzzicare virus, che ci hanno ricordato la nostra impotenza di fronte all’onnipotenza del mondo naturale.

La trama dei sogni di Emily Pigozzi, un romanzo che si muove al suono di musica

“La trama dei sogni”

 

La musica per me è tutta speciale, senza distinzioni.

Qualcosa che risveglia l’istinto più animale, più primordiale che ci batte dentro.

Così come speciali lo sono tutti i desideri, e le storie d’amore.

La musica è il filo conduttore delle nostre vite, anche quando non ce ne accorgiamo. Ci parla, e in qualche modo parla sempre di noi.

È il ritmo stonato che non ricordi, le parole che ti salgono in bocca e che non perderai mai più, anche se non ti piacciono. Un qualcosa di così piccolo e insieme di così grande.

E questo, tutto questo, si infila ne “La trama dei sogni” e in questa storia che unisce e sul filo delle note e dei desideri un secolo intero.

Per Sebastian la musica è il riscatto, l’essenza stessa della vita. Per lui è un qualcosa di così immenso da averne un timore reverenziale, sacro.

Per Rossana invece è un qualcosa che regala speranza e nostalgia, un urlo liberatorio sotto la doccia, una carezza di qualcuno che se n’è andato troppo presto.

Questo libro è nato, si muove e respira al suono di tanta musica: i meravigliosi valzer della famiglia Strauss amati da Franz e Rosa, che ci riportano a ritmo di danza a tempi antichi, offuscati dalla guerra e dalle convenzioni, dove l’amore era qualcosa di istintivo, forse di semplice.

Ci sono Chopin, Rachmaninoff, le melodie che compone con forza disperata Sebastian, urlando i sentimenti che non ha più il coraggio di esprimere a parole.

E naturalmente la musica pop vintage e italiana che ama Rossana. La musica, come i sogni, è sorprendentemente simile nel cuore di tutti noi. I Pooh, Gianni Morandi, i Ricchi e Poveri. Chi di noi non li ha cantati a squarciagola, almeno una volta?

Proprio come tanti generi musicali, anche noi esseri umani sembriamo così lontani, così diversi. Piccole isole e mondi destinati a non toccarsi mai.

Ma se guardiamo a fondo, sotto le nostre armature, scopriremo di avere sogni, desideri, speranze, così simili gli uni agli altri.

In fondo ci sono sette note soltanto, così piccole, così semplici.

Ma a quante melodie meravigliose possono dare vita?

                                                                                            

Emily Pigozzi

Aurélie Valognes: un successo nato in Italia

Recentemente Le Journal du Dimanche ha raccontato che in Francia «Aurélie Valognes ha illuminato la quarantena dei suoi lettori» grazie al suo ultimo romanzo, pubblicato subito prima del lockdown, «aiutandoli a superare quel periodo angosciante. E lo dimostrano gli oltre 400 messaggi ricevuti dall’autrice su internet nel giro di 8 settimane: ‘Questo romanzo è stato il mio compagno di quarantena, e pensare che non leggevo un libro per intero dai tempi della scuola’ le scrive un lettore. ‘Grazie di averci donato freschezza, gioia e leggerezza in questo momento difficile’ la ringrazia una psicologa. ‘La sua scrittura ci fa stare bene’ aggiunge una donna ricoverata in ospedale. La pandemia avrà anche intralciato la promozione della sua novità, Né sous une bonne étoile, ma Aurélie Valognes, che al termine di tutti libri fornisce il suo indirizzo mail privato, non ha mai interrotto il legame con il suo pubblico. […] A ogni lettore scrive un breve messaggio di speranza, convinta che ‘basti veramente poco perché la ruota giri per il verso giusto’. La prova? La sua stessa storia. Ha creduto di non farcela quando è stata colpita da una pesante depressione dopo la nascita del suo primo figlio; si è ritrovata senza lavoro quando ha dovuto licenziarsi per seguire suo marito in Italia; la morte di una cugina l’ha sconvolta.» Finché, una notte, un sogno le ha ricordato un suo vecchio desiderio di bambina: diventare una scrittrice E si è detta: Ora o mai più.

Dopo aver frequentato un corso di scrittura creativa, ha autopubblicato il suo primo romanzo: un successo immediato da 1 milione di copie. E allora sono arrivati l’interesse degli editori, altri cinque romanzi, le classifiche – dove svetta sempre ai primi posti: «nel 2019, per il terzo anno consecutivo, l’autrice trentasettenne si è classificata tra i cinque romanzieri più letti in Francia» riporta Le Journal du Dimanche.

Mentre sta già lavorando al suo settimo romanzo, arriva in Italia uno dei suoi successi precedenti: Non c’è rosa senza spine (tit. orig.: Minute, papillon), una storia che parla di madri e figli, di seconde chance e dei piccoli, irrinunciabili piaceri della vita. Come le torte al limone e i cappuccini che Aurélie stessa ha gustato in una pasticceria di Milano e che hanno accompagnato la stesura del romanzo. C’è quindi anche un po’ di Italia in questa storia – e nel successo di questa autrice. Del resto, è proprio nel nostro Paese che Aurélie ha rispolverato il suo sogno di bambina e ha iniziato finalmente a scrivere.

Ecco la sua dedica ai lettori italiani: https://www.facebook.com/sperling.kupfer/videos/3041794155934319/

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