Il 29 ottobre esce in libreria il nuovo romanzo di Marlon James, diventato famoso in tutto il mondo con Breve storia di sette omicidi, vincitore del Man Booker Prize nel 2014. James, la cui sfrenata fantasia e la cui inventiva linguistica hanno già dato vita a libri maestosi e personalissimi, ha finalmente realizzato un progetto nato molti anni fa, quando ancora tentava di farsi strada nel mondo della letteratura da un’agenzia pubblicitaria di Kingston, nella natia Giamaica. Il progetto era un fantasy tutto africano e il risultato è Leopardo nero, Lupo rosso, primo volume di una trilogia alla quale l’autore ha dato il nome Dark Star.
Ad affrontare ancora una volta il linguaggio flamboyant di James è Paola D’Accardi, bravissima traduttrice, che certamente non soffre di vertigini e ha letto e trasportato in italiano il nostro scrittore.
Cominciamo con una domanda generale sul tuo lavoro, sul tuo metodo: come affronti il testo? Quali sono le fasi essenziali attraverso le quali procedi alla traduzione? E in particolare, come hai affrontato Leopardo nero, Lupo rosso, che è già il terzo libro di James su cui lavori?
Le fasi essenziali per me sono sempre le stesse: lettura del testo originale, traduzione e riletture del mio testo. A cambiare ogni volta è l’approccio mentale con cui cerco una strategia per trasmettere al lettore quella che Franca Cavagnoli chiama «la voce del testo», cioè ─ in massima sintesi ─ non solo quello che l’autore dice, ma come lo dice, che è il compito più arduo di chi traduce. Ogni libro quindi è un caso a sé: a volte non è difficile trovare la chiave per entrare in sintonia con la sua voce, come fosse un animale sconosciuto che si lascia subito accarezzare e mangia dalla tua mano. Altre volte, la voce è una bestia selvatica: elusiva, mimetica, ritrosa. Difficile da catturare. Altre volte ancora, è un cavallo selvaggio indecifrabile, ombroso, recalcitrante e la traduzione uno sforzo quasi muscolare, una doma paziente e costante che richiede forza e finezza. Leopardo nero, Lupo rosso appartiene a quest’ultima categoria per più di un motivo: la lingua non standard, l’ambientazione fantastica, la scrittura spesso oscura, la narrazione non cronologica, la trama labirintica… e mi fermo qui. Diciamo che i colpi di scena che sbalzano di sella il lettore non mancano.
Sicuramente, una delle caratteristiche più interessanti di Marlon James è la libertà del linguaggio, e in questo nuovo romanzo, l’autore si diverte a reinventare il fantasy mescolando storia, leggende, miti africani con fumetti (penso a Black Panther), politica, sesso e avventura. Hai fatto ricerche particolari durante la lettura? In particolare, ci sono degli elementi che ti hanno affascinato?
È vero, il romanzo mescola molti elementi diversi e le fonti d’ispirazione citate dall’Autore sono tante e disparate. A fare la parte del leone sono senz’altro i fumetti della Marvel, Avengers in testa, di cui James si dichiara avido lettore. Ma ovviamente ha attinto a piene mani anche dalla cultura popolare e dalla tradizione letteraria africana. Quindi ho letto alcuni testi da lui citati che ancora non conoscevo. Sundiata, nella trascrizione dalla tradizione orale, che narra l’epopea del leggendario eroe considerato il fondatore del Mali. The forest of a thousand demons, ─ scritto in lingua yoruba dal nigeriano D.O. Fagunwa nel 1938 e tradotto in inglese da Wole Soyinka nel 1968 ─ e il suo diretto «discendente», My life in the bush of ghosts, di Amos Tutuola (1954), che ha ispirato l’omonimo e bellissimo album di David Byrne e Brian Eno. Questi ultimi due testi narrano vicende fantastiche relative a spiriti e demoni, ma in una chiave scanzonata, lontana dalle atmosfere dark e orrorifiche di Leopardo nero, Lupo rosso. Un elemento di fascino incontrato nel romanzo sono i griot, cioè i poeti-cantori-musicisti detentori della tradizione orale di molti popoli africani. Trovare queste figure così tradizionali e i versi scritti per loro in un fantasy è una sorpresa che mi ha incantato.
Il fantasy è un genere canonico: si pensa a Tolkien in primis, ma ultimamente non può essere sfuggito a nessuno il grande successo del Trono di spade. E tra l’altro anche Leopardo nero, Lupo rosso diventerà una serie TV. Sei ricorsa ai classici o hai semplicemente seguito il corso della narrazione di James?
Non sono ricorsa ai classici del genere, ma forse «semplicemente» non è la parola più adatta a descrivere il lavoro necessario per seguire la narrazione e la scrittura di James. Come accennavo, la lingua che usa non è l’inglese standard e in più varia a seconda del personaggio, prendendosi delle libertà, soprattutto nella grammatica e nella concordanza dei tempi, che mettono a dura prova la pazienza e le risorse di chi traduce. Quindi il livello di sensibilità, intuizione, logica, deduzione, creatività e capacità di scrittura che, traducendo, si è costretti a mettere in gioco è molto alto. In effetti, però, una mano dai classici l’ho avuta, anche se non da quelli che si potrebbero immaginare. Ricordo le rielaborazioni scritte che facevo a scuola dei grandi poemi come l’Odissea, l’Iliade, l’Orlando furioso. Non sto facendo un paragone con quei classici, ovviamente, ma con quell’esercizio per entrare in una lingua, uno stile, una forma ostici, estranei, a volte astrusi, per appropriarmene. Traducendo Leopardo nero, Lupo rosso mi sono resa conto di quanto io debba ancora oggi a quella palestra, che può far sorridere tanto è precoce, quasi infantile, ma preziosa. Insomma, certe cose ti accompagnano per sempre e chi l’avrebbe detto, allora, come mi sarebbe tornato utile Ulisse… e quel fantasy intitolato Odissea.