Stefania Divertito racconta “Chernobyl Italia”

26 aprile 1986, ore 01.23.
C’è un prima e un dopo il 26 aprile di 33 anni fa.
C’è un prima e un dopo la nube radioattiva che, partendo dalla centrale nucleare di Chernobyl, dal reattore 4 definitivamente scoperchiato, ha toccato il resto del mondo, e l’Italia.
Di quella notte, di quanto accaduto e delle conseguenze del disastro, è stato scritto molto. Ci sono video, prove documentali, testimonianze accessibili ormai con un semplice squillo di telefono.
Fin da subito abbiamo lavorato con un obiettivo, anzi due: raccontare l’incidente al trentenne di oggi, che non era nato quel 26 aprile.
E come secondo obiettivo abbiamo voluto accendere un faro sull’Italia.
Chi ha più di quarant’anni ricorda l’allarme sociale, il terrore di mangiare insalata e bere latte, la paura a respirare perché “la nube” ci potrebbe colpire. Ma ricorderà anche i Sasha, le Maria, gli Josef transitati nelle nostre comunità, a volte pochi mesi l’anno, altre volte per sempre. Sono i bambini ucraini e bielorussi che hanno trovato nelle famiglie italiane una seconda vita, una seconda chance di respirare aria pulita e mangiare cibo sano.
Sono stati gli anni in cui abbiamo aperto le porte di casa, forse non tutti sono consapevoli, ma l’Italia è stato il Paese più generoso in assoluto.
La metà dei bambini di Chernobyl sono venuti da noi. Abbiamo voluto ricostruire quegli alveari di famiglie nuove, cosa ne è stato, se quel germe di apertura è ancora tra di noi. E dove possiamo andare a pescarlo.
Chernobyl-Italia” ricostruisce come un affresco quello che siamo stati e che siamo diventati dopo quell’esplosione. E lo fa, volutamente, con uno stile più da romanzo che da saggio.
Nello stesso tempo, però, vuole tenere il rigore dell’indagine giornalistica. Quindi abbiamo scelto accuratamente le fonti: quelle sovietiche e le statunitensi, le inchieste di chi ci ha preceduto, i servizi dei tg di quei primi giorni e le ricostruzioni successive. Fonti documentali di prima mano e testimonianze dirette, a decine, raggiunte da Los Angeles a Lundt a Mosca, a Bruxelles, all’accogliente Maremma Toscana.

L’affermazione dell’ambientalismo antinucleare, il no definitivo alle centrali, la costituzione di un ministero dedicato all’ambiente, che non avevamo ancora, le assemblee nelle fabbriche, la più grande manifestazione ambientalista di tutta Europa: Chernobyl parla alla nostra coscienza di popolo. E non ha ancora smesso di farlo.

Daniel Speck: Scrivo di famiglie per raccontare il mondo

«Scrivo di famiglie per raccontare il mondo.»*

Sin dagli esordi della sua brillante carriera di sceneggiatore, Daniel Speck ha posto la famiglia al centro del suo universo creativo. Nelle sue storie, il nucleo famigliare è un microcosmo che rispecchia emozioni e tensioni del mondo che ci circonda, un punto di osservazione privilegiato per raccontare i tempi che stiamo vivendo e i mutamenti della società. Fino ad abbracciare le epoche che ci precedono, attraverso un’alternanza avvincente di piani temporali e salti generazionali.
Così è stato anche nel suo primo romanzo, Volevamo andare lontano, che raccontava l’avvincente saga di una famiglia italiana in cerca di fortuna in Germania: nella storia dei Marconi, abbiamo riscoperto un pezzo della nostra Storia nazionale, il recente passato di emigrazione in cui eravamo noi a vestire i panni di coloro che oggi bussano alla nostra porta carichi solo di sogni e speranze.
Dopo il grande successo di Volevamo andare lontano – in Germania è stato l’esordio più venduto nell’anno di pubblicazione e ne è stata subito tratta una serie tv, a breve in onda anche su Rai1 – Daniel Speck è tornato a scalare le classifiche tedesche con un nuovo romanzo: Piccola Sicilia, che in questi giorni arriva anche nelle librerie italiane.
Cuore della storia è l’epopea dei Sarfati, «al contempo italiani, tunisini ed ebrei»: una famiglia che ha nel dna il cosmopolitismo del quartiere in cui abita, quella “Piccola Sicilia” che dà il titolo al romanzo: la Little Italy di Tunisi, dove – fino allo scoppio della Seconda guerra mondiale – cristiani, ebrei e musulmani convivevano pacificamente. Mentre i semi dell’odio portati dal conflitto attecchiscono anche in quell’oasi di tolleranza – in pagine poeticamente drammatiche che sembrano un monito per il nostro presente – la famiglia Sarfati è in balia di quella bufera in cui storie e destini, ferocia e umanità si intrecciano in maniera inestricabile. Scossi da quella tempesta, i protagonisti di Piccola Sicilia sono anime in cerca di un’identità in cui riconoscersi nuovamente, di una patria cui appartenere, di una verità che possa colmare la mancanza. Verità che passa inevitabilmente dai segreti della famiglia: epicentro da cui tutto parte e a cui tutto torna, da cui desideriamo fuggire e al contempo ritornare. Perché ognuno di noi ha bisogno di un luogo da chiamare casa.

*Daniel Speck in una intervista a Die Zeit.

Ti regalerò un bosco di pioppi

Ti regalerò un bosco di pioppi sul fiume Adige. Ti donerò le mie trecce piene di sogni.  Ti offrirò un letto di piume sotto i meli.  Ti darò una boccetta di lacrime mattutine e una di rosolio per la sera. Questo è il maglione caldo di mio fratello Genesio che ti salvi dal freddo del marmo.  Ti cedo questa cartolina di mio marito caduto che mi ha disegnato il castello di Duino.  Cederò ogni anno metà del mio vino, perché bevano tutti al tuo ricordo. Ti lascio il medaglione con la mia pallida bambina scomparita nel frumento. Ti dedicherò la prossima città che fonderò in Paraguay.

Queste erano una piccola parte delle lettere e degli oggetti che furono gettati su uno dei carri vuoti del treno che trasportava la bara del milite ignoto ch’era partito il mattino del 29 di ottobre del 1921 dalla stazione di Aquileia e che sarebbe arrivato a Roma la sera del primo novembre. All’arrivo occorsero ben venticinque camion e una trentina di trattori d’artiglieria per trasportar i fiori e gli oggetti che vi eran stati deposti.

Rivedendo quel treno che a passo d’uomo attraversava le campagne e le colline del Friuli, del Veneto, dell’Emilia, della Toscana e del Lazio e che raccolse intorno a sé otto milioni di persone che andarono a piedi a salutarlo, ci appare un’Italia contadina, profondamente mortificata e scioccata dalla più dura guerra che avesse mai visto, ma unita sul quel ragazzo senza nome. Un paese ancora ferito, ma avvolto in una lunga e lacera coperta di Pietà per quel soldato che rappresentava per ognuno il padre, il marito, il figlio, il fratello che avevano perduto.

Il viaggio di quel treno correva su un affresco di Misericordia tra la commossa partecipazione di una nazione che s’era formata da poco e da poco cominciava ad avere un unico cuore ed un unico sentire. La Grande Guerra era finita da tre anni, ma quell’incantato fiume di parole creato da quattro miliardi di lettere scritte durante il conflitto, rappresentava il primo vero epos italiano: uno sconfinato e toccante documento di racconto collettivo.

Un paese come il nostro ancor oggi così carente di un’epica condivisa, dove anche gli eroi del Risorgimento sono confutati e discussi, l’invenzione del Milite Ignoto ed il suo leggendario viaggio dalla Basilica di Aquileia all’Altare della Patria rappresenta invece e finalmente una letteratura popolare nuova e partecipe La grande pianura che andava dall’Isonzo al Po, era attraversata e avviluppata in chilometri e chilometri di lettere, con inchiostro azzurro e color sangue, da stagni di lacrime e maledizioni dove volava come una libellula la una giovane Dea Speranza che cambiava il colore degli occhi e dei sogni al nostro avventurato paese, che come una sposa aveva iniziato a riconoscersi nel suo amato prima ancora di conoscerlo. Aveva iniziato a scriverlo prima che a leggerlo. Ad amarlo prima d’averlo incontrato. Lungimiranze sentimentali dovute alle vertigini della povertà e del disastro incombente che ci avevano disperso a lungo per poi unirci su un giovine martire sconosciuto.

Quello che appariva infine dopo il trionfante strazio di quella Via Crucis su rotaie era una nazione riconciliata dalla morte del suo figlio ultimo e dimenticato, diventato alfine l’ultimo figlio amatissimo.

Dobbiamo impegnarci quindi a rappresentare questa tragedia e a rinnovarne la memoria, che non è solo storia e dramma, ma è soprattutto poesia e racconto rapsodico, musica da cantare e versi di canzoni semplicemente immortali.

Questo è doveroso da parte nostra verso le nuove generazioni per ridare loro una mappa a colori di com’erano i sentimenti di un secolo fa, così diversi da adesso: l’amore coniugale, la devozione filiale, lo spirito del sacrificio, la parola data, la indiscussa lealtà ed il rispetto per le persone e le cose desiderate e necessarie, sudate e guadagnate.

Il coraggio, dicono, salta sempre una generazione ed è proprio per questo che ogni generazione deve tenere a memoria il coraggio delle precedenti ed anche il semplice ricordarlo aiuta chi questo coraggio non ha avuto e non se lo può donare.

Eschilo sulla sua tomba fece scrivere solo e soltanto che aveva combattuto a Maratona, nonostante i sui innumerevoli meriti letterari. Quella guerra contro i Persiani e quella battaglia dove perse un fratello e dimostrò il suo , era tutto ciò che voleva che di lui fosse ricordato e questo fu il suo ultimo regalo per tutti noi.

Massimo Bubola

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