Diletta Pizzicori ci racconta la storia della sua saga famigliare

In occasione dell’uscita di “Gli anni dei ricordi“, Diletta Pizzicori ci racconta la storia della sua saga famigliare e ci svela qualche dietro le quinte della stesura.

«Ci resta sempre in fondo al cuore il rimpianto di un’ora, di un’estate, di un fuggevole istante in cui la giovinezza si schiude come una gemma.»
Non credo che esistano parole più appropriate di quelle scelte da Irène Némirovsky in Jezabel (Adelphi) per descrivere il momento del diventare adulti. Ma cosa significa esattamente diventare adulti? Per quale motivo compiamo certe cose o non le compiano? Perché proviamo nostalgia verso qualcosa che è perduto per sempre invece di goderci il momento presente? A queste domande ho cercato di rispondere nel mio romanzo, Gli anni dei ricordi, una saga famigliare tra passato e presente, tra la Toscana e l’Inghilterra degli anni Venti e Trenta.
Chi siamo stati prima di diventare altre versioni di noi stessi?
Anche Julia Patel se lo chiede nel 1993 quando, dopo aver scoperto che nonna Leticia si era trascinata addosso un doloroso segreto e aveva passato gran parte della vita ad amare silenziosamente il giardiniere della tenuta toscana, decide di lasciare Oxford per tornare a Meretto sulle tracce della storia di Leticia Parker e della sua famiglia. Attraverso vecchi diari e un manoscritto di cui non conosceva l’esistenza, Julia troverà risposta a molte domande, persino al giallo della piccola Virginia, che scomparve dalla Val di Bisenzio molti anni prima. Però, fare luce sul passato permette di placare la curiosità, oppure la alimenta?
«Se è una verità totale quella che cerchi, un fascio di luce che splenda in ogni angolo buio, temo che non la troverai mai.»
Dalla trama della Grande Storia ho ritagliano l’esistenza dorata di Leticia Parker, erede di un ricca famiglia anglofiorentina, secondogenita di proprietari terrieri appassionati di viaggi, di collezionismo e archeologia e poco interessati a dimostrare affetto ai loro figli, e quella molto più modesta di Primo Gualtieri, il giardiniere orfano del padre disperso in guerra, che ha frequentato solo pochi anni di scuola, ma che dimostra comunque una grande sensibilità verso letteratura e politica. Sono due personaggi inventati che, tuttavia, incarnano le grandi divisioni sociali del secolo scorso. Per dipingerli mi sono ispirata ai racconti di mia madre, figlia del giardiniere e dalla governante di Meretto alle dipendenze degli Spranger, i “veri” angloflorentini proprietari della villa narrata nel romanzo.
Rendere coerente e verosimile un panorama frammentato da una parte dalla classe borghese, e dall’altra da mezzadria e classe operaia, significa documentarsi molto. Io l’ho fatto leggendo numerosi testi e articoli, guardando un’infinità di foto d’epoca e, soprattutto, ascoltando le testimonianze orali di chi ancora ricorda un passato a portata di mano, eppure ormai così distante perché appartenente a un mondo perduto. Negli anni Venti e Trenta, noi lo sappiamo, si succedono inarrestabili violenti cambiamenti, tra proteste, rivoluzioni e fatti di sangue. Sullo sfondo di quegli eventi ho ricamato una trama di fantasia con al centro l’amore impossibile tra la figlia del padrone e il suo giardiniere, e il terribile segreto del fratello maggiore, Theodore Oswald Parker.
È stato bello poter legare le storie dei miei personaggi a quelle di persone realmente esistite, come il giovane archeologo Ranuccio Bianchi Bandinelli, che stringe con Leticia un’amicizia di lungo corso, e Matilde Forti, figlia dell’industriale pratese Giulio Forti, a cui si deve l’esistenza del villaggio-fabbrica di La Briglia.
Matilde si sposò con Giorgio Castelfranco, storico dell’arte, amico intimo e mecenate di Giorgio De Chirico. Durante la Seconda Guerra Mondiale, Castelfranco si sarebbe distinto come uno dei monument men italiani; prima ancora era un ebreo, con tutto ciò che la sua origine implicò durante le Leggi razziali – la perdita del lavoro, la svendita della collezione privata di De Chirico per mettere in salvo i figli in America, la lotta per la sopravvivenza nei giorni dell’occupazione.
Matilde e Giorgio sono stati due individui in carne e ossa a cui ho cercato di rendere omaggio trasformandoli a loro volta in personaggi con desideri e sofferenze che io ho solo ipotizzato.
Anche con Ranuccio Bianchi Bandinelli mi sono presa qualche piccola libertà, senza mai alterare la figura di intellettuale genuino che la storia ci ha consegnato. Come è stato scritto, fu l’uomo “che non cambiò la storia”, perché durante la visita del Führer a Firenze nel maggio ’38 Bianchi Bandinelli ipotizzò di compiere un attentato ai danni di Hitler e Mussolini ma non lo fece. Perché? Perché le cose non sono mai semplici mentre le si vivono e lui era un antifascista generico, esattamente come il personaggio di Leticia.
Io credo, in verità, che Ranuccio il mondo lo abbia cambiato eccome, con l’acume e l’ingegno di una mente che non aveva paura di risultare scomoda e che fu sempre coerente con le proprie idee, anche e soprattutto durante quel fatidico maggio che ho cercato di far rivivere fedelmente.
Gli anni dei ricordi è un romanzo che parla dello scorrere del tempo, di come in una singola vita si possano susseguire decine di vite, dove nessuno è uguale a se stesso, ma cambia, giorno dopo giorno. È un romanzo storico perché racconta il Ventennio fascista a partire dai documenti ed è un romanzo sull’amore perché, come si suol dire, ogni storia è una storia d’amore. Ma è anche un caleidoscopio di voci, il racconto di un’amicizia, di un ritrovarsi a dispetto delle scelte e dei tradimenti.

Daniel Speck: Scrivo di famiglie per raccontare il mondo

«Scrivo di famiglie per raccontare il mondo.»*

Sin dagli esordi della sua brillante carriera di sceneggiatore, Daniel Speck ha posto la famiglia al centro del suo universo creativo. Nelle sue storie, il nucleo famigliare è un microcosmo che rispecchia emozioni e tensioni del mondo che ci circonda, un punto di osservazione privilegiato per raccontare i tempi che stiamo vivendo e i mutamenti della società. Fino ad abbracciare le epoche che ci precedono, attraverso un’alternanza avvincente di piani temporali e salti generazionali.
Così è stato anche nel suo primo romanzo, Volevamo andare lontano, che raccontava l’avvincente saga di una famiglia italiana in cerca di fortuna in Germania: nella storia dei Marconi, abbiamo riscoperto un pezzo della nostra Storia nazionale, il recente passato di emigrazione in cui eravamo noi a vestire i panni di coloro che oggi bussano alla nostra porta carichi solo di sogni e speranze.
Dopo il grande successo di Volevamo andare lontano – in Germania è stato l’esordio più venduto nell’anno di pubblicazione e ne è stata subito tratta una serie tv, a breve in onda anche su Rai1 – Daniel Speck è tornato a scalare le classifiche tedesche con un nuovo romanzo: Piccola Sicilia, che in questi giorni arriva anche nelle librerie italiane.
Cuore della storia è l’epopea dei Sarfati, «al contempo italiani, tunisini ed ebrei»: una famiglia che ha nel dna il cosmopolitismo del quartiere in cui abita, quella “Piccola Sicilia” che dà il titolo al romanzo: la Little Italy di Tunisi, dove – fino allo scoppio della Seconda guerra mondiale – cristiani, ebrei e musulmani convivevano pacificamente. Mentre i semi dell’odio portati dal conflitto attecchiscono anche in quell’oasi di tolleranza – in pagine poeticamente drammatiche che sembrano un monito per il nostro presente – la famiglia Sarfati è in balia di quella bufera in cui storie e destini, ferocia e umanità si intrecciano in maniera inestricabile. Scossi da quella tempesta, i protagonisti di Piccola Sicilia sono anime in cerca di un’identità in cui riconoscersi nuovamente, di una patria cui appartenere, di una verità che possa colmare la mancanza. Verità che passa inevitabilmente dai segreti della famiglia: epicentro da cui tutto parte e a cui tutto torna, da cui desideriamo fuggire e al contempo ritornare. Perché ognuno di noi ha bisogno di un luogo da chiamare casa.

*Daniel Speck in una intervista a Die Zeit.

Nascita di un commissario

“Tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90 dovetti occuparmi per il giornale di una vicenda inedita e misteriosa: la scomparsa di una famiglia a bordo di un camper. Ho seguito questa storia per nove anni e verso la fine m’è venuta voglia di raccontarla in un’unica soluzione. Non era ancora un triplice omicidio, ma una semplice fuga, probabilmente con denaro sottratto al fondo nero di un’azienda. A quell’epoca il giallo si era ormai sottratto dalle sue parentele conandoliane e si affermava come romanzo sociale contaminandosi col “noir” francese: una prospettiva per me molto stimolante dal punto di vista narrativo. Avevo bisogno di un investigatore e vista la scarsa presa del detective privato in questo Paese, ho pensato che dovesse essere un uomo delle istituzioni, un carabiniere o un poliziotto. Conoscevo, per aver avuto a che fare con lui, un capo della Mobile parmigiana che si presentava con profilo apparentemente dimesso e riflessivo, una specie di don Ciccio Ingravallo alla parmigiana. Mi piacque e lo presi come modello. Si sa che gli scrittori sono ladri di vita altrui. Non sapevo se questo personaggio, schivo, grande camminatore, induttivo e intuitivo, refrattario all’informatica e diffidente della polizia scientifica, avrebbe avuto o no successo. Comunque uscì la sua prima avventura ancorché atipica in quanto “fiscal thriller” e non comune indagine su un assassinio. “Mobydick” pubblicò il libro che finì nelle mani di Raffaele Crovi a cui piacque questo personaggio al punto di volerlo ospitare in due sue collane di narrativa. Nel 2003 lo stesso Crovi mi presentò a Carla Tanzi e Ilde Buratti, presidente ed editor di Frassinelli che decisero di pubblicare “Il fiume delle nebbie”. Il libro fu incluso nei 12 dello “Strega” e risultò settimo alle votazioni per la cinquina. Fu uno dei primi gialli a partecipare al premio. Due anni dopo, nel 2005, Soneri è diventato un personaggio dell’immaginario collettivo con l’uscita della prima serie di “Nebbie e delitti” interpretata da Luca Barbareschi. A quelle prime quattro puntate hanno fatto seguito altre dieci puntate andate in onda in successive due serie nel 2007 e nel 2009.”

Valerio Varesi

Letture d’autore #1: Raffaella Romagnolo legge LA FIGLIA SBAGLIATA

Non faccio mai presentazioni senza leggere qualche pagina. Sono convinta che le uniche parole che contano stanno dentro il libro, non intorno.

Per questo ho scelto quattro passi del romanzo La figlia sbagliata e li ho registrati: le prime righe, Vittorio bambino nei ricordi della madre Ines, la ribellione di Vittorio e quella di Riccarda. Quattro assaggi, giusto per capire come suona.

Buon ascolto.

Raffaella Romagnolo

La figlia sbagliata – letture d’autore #1

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