Diletta Pizzicori ci racconta la storia della sua saga famigliare

In occasione dell’uscita di “Gli anni dei ricordi“, Diletta Pizzicori ci racconta la storia della sua saga famigliare e ci svela qualche dietro le quinte della stesura.

«Ci resta sempre in fondo al cuore il rimpianto di un’ora, di un’estate, di un fuggevole istante in cui la giovinezza si schiude come una gemma.»
Non credo che esistano parole più appropriate di quelle scelte da Irène Némirovsky in Jezabel (Adelphi) per descrivere il momento del diventare adulti. Ma cosa significa esattamente diventare adulti? Per quale motivo compiamo certe cose o non le compiano? Perché proviamo nostalgia verso qualcosa che è perduto per sempre invece di goderci il momento presente? A queste domande ho cercato di rispondere nel mio romanzo, Gli anni dei ricordi, una saga famigliare tra passato e presente, tra la Toscana e l’Inghilterra degli anni Venti e Trenta.
Chi siamo stati prima di diventare altre versioni di noi stessi?
Anche Julia Patel se lo chiede nel 1993 quando, dopo aver scoperto che nonna Leticia si era trascinata addosso un doloroso segreto e aveva passato gran parte della vita ad amare silenziosamente il giardiniere della tenuta toscana, decide di lasciare Oxford per tornare a Meretto sulle tracce della storia di Leticia Parker e della sua famiglia. Attraverso vecchi diari e un manoscritto di cui non conosceva l’esistenza, Julia troverà risposta a molte domande, persino al giallo della piccola Virginia, che scomparve dalla Val di Bisenzio molti anni prima. Però, fare luce sul passato permette di placare la curiosità, oppure la alimenta?
«Se è una verità totale quella che cerchi, un fascio di luce che splenda in ogni angolo buio, temo che non la troverai mai.»
Dalla trama della Grande Storia ho ritagliano l’esistenza dorata di Leticia Parker, erede di un ricca famiglia anglofiorentina, secondogenita di proprietari terrieri appassionati di viaggi, di collezionismo e archeologia e poco interessati a dimostrare affetto ai loro figli, e quella molto più modesta di Primo Gualtieri, il giardiniere orfano del padre disperso in guerra, che ha frequentato solo pochi anni di scuola, ma che dimostra comunque una grande sensibilità verso letteratura e politica. Sono due personaggi inventati che, tuttavia, incarnano le grandi divisioni sociali del secolo scorso. Per dipingerli mi sono ispirata ai racconti di mia madre, figlia del giardiniere e dalla governante di Meretto alle dipendenze degli Spranger, i “veri” angloflorentini proprietari della villa narrata nel romanzo.
Rendere coerente e verosimile un panorama frammentato da una parte dalla classe borghese, e dall’altra da mezzadria e classe operaia, significa documentarsi molto. Io l’ho fatto leggendo numerosi testi e articoli, guardando un’infinità di foto d’epoca e, soprattutto, ascoltando le testimonianze orali di chi ancora ricorda un passato a portata di mano, eppure ormai così distante perché appartenente a un mondo perduto. Negli anni Venti e Trenta, noi lo sappiamo, si succedono inarrestabili violenti cambiamenti, tra proteste, rivoluzioni e fatti di sangue. Sullo sfondo di quegli eventi ho ricamato una trama di fantasia con al centro l’amore impossibile tra la figlia del padrone e il suo giardiniere, e il terribile segreto del fratello maggiore, Theodore Oswald Parker.
È stato bello poter legare le storie dei miei personaggi a quelle di persone realmente esistite, come il giovane archeologo Ranuccio Bianchi Bandinelli, che stringe con Leticia un’amicizia di lungo corso, e Matilde Forti, figlia dell’industriale pratese Giulio Forti, a cui si deve l’esistenza del villaggio-fabbrica di La Briglia.
Matilde si sposò con Giorgio Castelfranco, storico dell’arte, amico intimo e mecenate di Giorgio De Chirico. Durante la Seconda Guerra Mondiale, Castelfranco si sarebbe distinto come uno dei monument men italiani; prima ancora era un ebreo, con tutto ciò che la sua origine implicò durante le Leggi razziali – la perdita del lavoro, la svendita della collezione privata di De Chirico per mettere in salvo i figli in America, la lotta per la sopravvivenza nei giorni dell’occupazione.
Matilde e Giorgio sono stati due individui in carne e ossa a cui ho cercato di rendere omaggio trasformandoli a loro volta in personaggi con desideri e sofferenze che io ho solo ipotizzato.
Anche con Ranuccio Bianchi Bandinelli mi sono presa qualche piccola libertà, senza mai alterare la figura di intellettuale genuino che la storia ci ha consegnato. Come è stato scritto, fu l’uomo “che non cambiò la storia”, perché durante la visita del Führer a Firenze nel maggio ’38 Bianchi Bandinelli ipotizzò di compiere un attentato ai danni di Hitler e Mussolini ma non lo fece. Perché? Perché le cose non sono mai semplici mentre le si vivono e lui era un antifascista generico, esattamente come il personaggio di Leticia.
Io credo, in verità, che Ranuccio il mondo lo abbia cambiato eccome, con l’acume e l’ingegno di una mente che non aveva paura di risultare scomoda e che fu sempre coerente con le proprie idee, anche e soprattutto durante quel fatidico maggio che ho cercato di far rivivere fedelmente.
Gli anni dei ricordi è un romanzo che parla dello scorrere del tempo, di come in una singola vita si possano susseguire decine di vite, dove nessuno è uguale a se stesso, ma cambia, giorno dopo giorno. È un romanzo storico perché racconta il Ventennio fascista a partire dai documenti ed è un romanzo sull’amore perché, come si suol dire, ogni storia è una storia d’amore. Ma è anche un caleidoscopio di voci, il racconto di un’amicizia, di un ritrovarsi a dispetto delle scelte e dei tradimenti.

Intervista a Lucy Adlington, autrice di “Il nastro rosso”

In occasione della Giornata della Memoria, abbiamo intervistato Lucy Adlington, autrice di “Il nastro rosso”, in libreria dal 24 gennaio.

Lucy, per quale motivo hai deciso di raccontare questa storia? Che cosa ti ha colpito di questa vicenda?

Ho sentito lo stimolo incredibile e incontenibile di scrivere questa storia non appena ho letto che ad Auschwitz esisteva un salone di moda. Ho provato a immaginare che cosa volesse dire essere circondati da abiti meravigliosi in un luogo orribile. Volevo esplorare la tensione e la sensazione di dover cucire per salvare la propria vita. E soprattutto volevo dare enfasi a quanto sia importante il potere dell’amicizia per opporsi alla brutalità più assoluta. Il tema più importante della storia è la speranza, qualcosa a cui possiamo aggrapparci quando la vita è difficile. C’è sempre qualcosa di bello, da qualche parte.

Raccontaci qualcosa delle protagoniste.
Ella e Rose sono le eroine di questa storia. Sono così diverse tra loro, ma insieme fanno un’ottima squadra. Le ho chiamate così in onore di mia nonna, che è stata una sarta negli anni Quaranta. In ogni caso ho deliberatamente scelto di non mettere date nel libro, perché volevo che i lettori lo trovassero attuale: potrebbe succedere anche ora.
Ella ha 14 anni ed è veramente talentuosa, quello che le serve è solo affetto. Rose è una giovane e delicata sognatrice. Si incontrano in una sartoria e si supportano a vicenda finché non arriva la catastrofe. Carla invece è una guardia. A volte è crudele, sempre egoista, spesso si sente sola. Sono tutte protagoniste molto giovani, che si trovano ad affrontare delle circostanza capaci di travolgerle. Ella usa la sua creatività per contrastare la violenza di Carla. Rose si rifugia nella sua immaginazione. Questa creatività e questa necessità di fuga mi appartengono. Questo è il motivo per cui mi piace tanto scrivere storie.

Puoi dirci qualcosa del tuo hobby di restauro abiti?
Ho collezionato abiti vintage e antichi per oltre vent’anni. Amo molto il modo in cui i vestiti conservino i ricordi, e allo stesso modo come siano in grado di raccontare storie. I vestiti possono cambiare il modo in cui ci sentiamo e come esprimiamo noi stessi. I colori, i materiali con cui vengono realizzati e la moda possono essere altrettanto meravigliosi.
A volte penso a chi ha realizzato i vestiti che indosso o che colleziono… Quali sono le loro vite? Che cosa sognano quando si siedono e iniziano a cucire?
In calce trovate una foto di Lucy con indosso l’abito della liberazione, che viene nominato anche nel libro.

Perché è ancora importante raccontare storie come questa?
La cosa straordinaria del “Nastro rosso” è che è una storia di fantasia, nata dalla mia immaginazione… ma mi ha portato a scoprire la verità sulle reali sarte del salone di moda di Auschwitz. Quando il romanzo è stato pubblicato inizialmente sono stata contattata dalle famiglie delle donne che sono effettivamente sopravvissute ad Auschwitz grazie alle loro abilità nel cucito. Sono riuscita a incontrare e interviste le ultime sarte in vita e a raccontare la loro storia in un libro di non-fiction, “Le sarte di Auschwitz” (Rizzoli).
Penso che la narrativa ci possa portare in un altro mondo e che ci possa ispirare per scoprire di più riguardo alla vera storia. La cosa più importante è di ricordarci di onorare l’amicizia e la resilienza delle donne e delle ragazze che hanno utilizzato l’arte del cucito per sopravvivere durante l’Olocausto.


Lucy con indosso l’abito della liberazione, che viene nominato anche nel libro.

TRACY WOLFF E IL SUO #BITEMETOUR FANNO TAPPA IN ITALIA

TRACY WOLFF E IL SUO #BITEMETOUR FANNO TAPPA IN ITALIA:

Venerdì 14 ottobre

Ore 18: firmacopie presso la libreria Mondadori Megastore Duomo

piazza Duomo, Milano

Ingresso libero.

Sabato 15 ottobre

Ore 17: presentazione presso l’Accademia di Belle Arti di Brera in collaborazione con La Città dei Lettori.

L’autrice dialoga con Sara Menichetti.

Via Ricasoli 66, Firenze

Ingresso libero.

Domenica 16 ottobre

Ore 17: presentazione del romanzo presso la libreria Mondadori e firmacopie

Festival Buk Romance – Centro Commerciale Aura

Viale di Valle Aurelia 30, Roma

Ingresso libero, il biglietto per il festival è gratuito e acquistabile sul sito.

Sara Fregosi al Salone del Libro di Torino

GIOVEDÌ 19 MAGGIO

ore 15.00

Sara Fregosi

autrice di Ho sempre amato troppo (Sperling & Kupfer)

Sala Magenta, AREA ESTERNA PAD 3

con Paolo Armelli

Giovane attivista per i diritti LGBTQIA+, Sara Fregosi racconta ogni giorno nel mondo dei social tutte le sfumature del mondo arcobaleno. Il suo esordio letterario approfondisce i temi che affronta su TikTok e nel suo podcast.

Intervista a Chiara Ferraris

Raccontaci le storie delle due donne protagoniste di questo libro. Cos’hanno in comune? E cosa invece le rende diverse

Anime qualunque ha due protagoniste femminili, una donna del presente, Serena, con una vita abbastanza ordinaria, un lavoro, un marito, piccoli appuntamenti fissi che scandiscono la sua esistenza, e una donna del passato, Lady Catherine, un’aristocratica inglese che si trova a transitare per Genova durante il suo Grand Tour a cavallo tra il 1833 e il 1834. Due donne che apparentemente non hanno nulla in comune, non sono imparentate, né connazionali, nulla sembra poterle avvicinare, eppure c’è tra di loro un legame invisibile. Entrambe sembrano arrese a un’esistenza già predefinita, quella di Serena che oscilla tra una cena a casa dei suoi e una chiacchierata con la sorella e quella di Catherine, rassegnata al destino di ogni giovane del suo rango, quello di sposare l’uomo che la sua famiglia riterrà opportuno, frequentare l’alta società, avere dei figli. Eppure, entrambe a un certo punto si rendono conto che non può essere tutto qui. O almeno, che a loro non basta. Incapperanno in qualcosa, in qualcuno, che le porrà di fronte a domande scomode, le aiuterà a guardare bene dentro loro stesse, cosa che forse non avevano mai fatto sul serio. E a quel punto non ci sarà molto da fare: dovranno prendere delle decisioni e saranno decisioni che, in un modo o nell’altro, daranno una svolta definitiva alle loro vite.

 

Dopo L’impromissa, un’altra storia ambientata nella tua terra. Come sono rappresentate Genova e la Liguria? E cosa rappresentano invece per i personaggi e per te?

Con L’impromissa ho raccontato una parte della Liguria a cui sono molto legata, l’entroterra, con Anime Qualunque mi sono mantenuta legata a questa ambientazione nella prima parte, per poi spostarmi a Genova e lasciarle lo spazio che si merita. Posso dire che questo libro è una vera e propria dichiarazione d’amore alla mia città e a quello che rappresenta. Abbiamo la fortuna di vivere in un paese, l’Italia, con città impregnate di storia. La calpestiamo sui marciapiedi, la respiriamo tra le pietre degli edifici, ci sono aneddoti ovunque che, inanellati uno dietro l’altro, raccontano la Storia del nostro paese. E’ così anche per Genova, in particolare per il periodo che ho voluto raccontare, i primi decenni dell’Ottocento, ed è stato come voler tirare fuori una collana da uno scrigno, ogni perla portava con sé altri gioielli, monili, uno più bello dell’altro. Scopriamo, attraverso gli occhi di Catherine, la Genova dell’Ottocento, le sue bellezze ma anche gli aspetti meno turistici. Lei stessa capirà che Genova non è solo un elenco di palazzi e chiese da visitare, dato che al pari di città come Milano, Torino, Napoli, Firenze, Roma, anche Genova è una tappa irrinunciabile per i viaggi dell’epoca, ma tra i suoi vicoli conoscerà aspetti del tutto nuovi della realtà e, in fondo, anche di se stessa. Anche Serena accompagna Catherine in questo viaggio e la città che inizialmente è solo uno sfondo delle sue azioni quotidiane si trasforma in qualcosa di diverso e inaspettato.

 

Da dove hai tratto ispirazione per questo romanzo? C’è qualcosa di vero? Il processo di scrittura ha previsto delle ricerche?

Tutto è iniziato con un brano letto a scuola da una mia collega, un brano scritto da Lady Sidney Morgan, una scrittrice che nel 1819 è transitata per il Passo della Bocchetta, descrivendolo con parole molto lusinghiere. Ne sono rimasta colpita, il Passo è a pochi chilometri da casa mia, l’ho percorso decine di volte e mai ho pensato che potesse avere un fascino particolare. Mi sono incuriosita e ho voluto scoprire qualcosa di più su Lady Sidney Morgan, una donna molto intraprendente per la sua epoca, con una storia interessante e che, nei suoi scritti, ha trattato molti temi sociali, tra cui anche la delicata situazione italiana di inizio Ottocento. Mi ha solleticato l’idea di ambientare un romanzo nella Genova risorgimentale e di usare il Grand Tour, l’antenato del moderno turismo, come stratagemma per avere come protagonista una giovane nobile inglese. Ero divertita dall’idea di attingere all’immaginario sull’alta società inglese che ultimamente è stato alimentato anche da serie come Downton Abbey o Bridgerton, per non parlare della nutrita letteratura in merito. Insomma, è iniziato come un gioco, è diventato duro lavoro. Mi sono immersa nei diari dei viaggiatori, inglesi e non, che hanno toccato la Liguria tra il Settecento e l’Ottocento, ho letto le loro descrizioni di Genova, ho approfondito molti aspetti del Grand Tour, le abitudini dell’aristocrazia inglese, la Genova dell’Ottocento; le ricerche si sono diramate verso tante strade diverse. Per la mia protagonista, ho scelto di prendere in prestito alcuni aspetti biografici di Lady Morgan e ovviamente le sue prime impressioni sul Passo della Bocchetta. Ho attinto dalle sue pagine su Genova, per far muovere i primi passi nella città anche alla mia Lady Catherine, ma poi le loro strade si sono divise. La mia Cathy doveva seguire il vento di Genova e le difficili scelte che l’ha obbligata a prendere.

UN MONDO LIBERO: intervista all’autrice Valentina Cebeni

1.    Con il tuo nuovo romanzo ritroviamo la famiglia Fontamara al completo: cosa è cambiato negli anni intercorsi dopo Una nuova vita?

Nel nuovo capitolo della saga a essere cambiati, o meglio cresciuti, sono proprio i figli di Eva e Ottavia. In “Una nuova vita” avevamo lasciato i Fontamara il giorno in cui sono state promulgate le leggi razziali in Italia, alla vigilia di quello che avrebbe rappresentato un cambiamento decisivo per la storia del nostro Paese, che ci avrebbe avvicinato ancora di più all’alleato tedesco e allontanato dal mondo liberale. Avevamo salutato i Fontamara mentre erano alle prese con un nuovo equilibrio raggiunto, anche se imperfetto, con alcuni nodi del passato sciolti e nuove fasi della vita da affrontare, mentre in questo secondo volume li troviamo scossi, provati da una guerra iniziata in ritardo, per il nostro Paese, che tuttavia non risparmia loro importanti prove di coraggio, di vita. E loro, cui il coraggio e la determinazione non sono mai mancati, troveranno il modo per vivere coerentemente con i loro valori anche questa pagina tragica della storia del secolo scorso.

 

2.    Il secondo capitolo della saga si intitola Un mondo libero. Come mai? Com’è rappresentata la libertà in questa storia e cosa rappresenta per te?

La libertà è un valore di cui questo secondo capitolo è intriso, anche se in realtà lo è tutta la saga; mentre nel primo volume, infatti, il valore della libertà era espresso dalla condizione femminile, dal modo di vivere emancipato delle donne Fontamara, in questo secondo volume questa assume un senso più ampio e quasi letterale, perché tutti si ritroveranno a combattere per riconquistarla. In “Un mondo libero” la libertà investe tutti i personaggi e tutti i piani della storia, e questo spiega la scelta del titolo, ma se penso a cosa significhi per me questa parola non posso evitare di fare riferimento agli eventi che caratterizzano questi primi mesi del 2022: libertà è per me la possibilità di vivere pienamente i propri ideali e valori nel rispetto degli altri, senza che questo crei disagio, scandalo, o peggio sia considerato un crimine.

 

3.    Sebbene il romanzo sia ambientato in una Roma devastata dalla Seconda guerra mondiale e dalla Resistenza, è tragicamente attuale, ora più che mai. Perché? Cosa pensi possa lasciare al lettore?

La prima regola per chi scrive romanzi è: “poni domande ma non dare mai risposte”, una filosofia che sposo pienamente. E questo mio approccio alla scrittura si spiega con il bisogno di fornire al lettore, soprattutto in questo momento storico così complesso, uno spunto per riflettere sulla ciclicità degli eventi storici, di modo che questo possa cercare liberamente, appunto, le sue soluzioni, le sue risposte a ciò che purtroppo viviamo in queste settimane. In questa guerra e in quella che racconto in “Un mondo libero” ci sono meccanismi che si ripetono, così come si ripete la tragedia che investe la popolazione civile, ma le soluzioni che possiamo offrire oggi forse possono essere diverse, se si è davvero fatto tesoro di quanto accaduto negli anni ’40. Ed è proprio questo il messaggio che vorrei lasciare ai miei lettori: cercate nel passato le risposte per capire e affrontare il presente. Come farlo, però, è una sfida per tutti noi.

TIKTOK… Ci siamo anche noi!

Care lettrici e cari lettori,
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Vi aspettiamo sul nostro profilo per scoprire le novità della narrativa più attese e tutti i nuovi romanzi di Sperling & Kupfer.
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UN IN BOCCA AL LUPO SPECIALE AD ANNA CAMPANI

COME CORDE DI CHITARRA… UN IN BOCCA AL LUPO SPECIALE AD ANNA CAMPANI PER IL SUO PRIMO ROMANZO SOLISTA DA PARTE DI RAFFAELLA DI GIROLAMO, AUTRICE, CON LEI, DELLA FANFICTION 365 GIORNI

Io e Anna ci siamo incontrate grazie a Sanem e Can, alla passione comune per la serie turca DayDreamer, ed essere qui, oggi, a congratularmi con lei per l’uscita del suo primo romanzo solista, dopo 365 giorni, la fanfiction che abbiamo scritto insieme, è un grande traguardo.

So bene che per lei Come corde di chitarra è un sogno che si avvera, un sogno cominciato fin da bambina, quando sua madre e sua nonna Grazia le raccontavano storie, spingendola a sua volta a narrare, a trasmettere i suoi pensieri e le sue emozioni tramite la scrittura.

E in questo suo nuovo romanzo, disponibile in libreria e sugli store online dall’8 febbraio, Anna ha scelto di raccontare la forza dell’amore e della musica, che uniscono i cuori e tracciano i destini dei suoi due nuovi protagonisti, Liam e Riley.

Lui è un musicista bello e dannato, che è convinto che la sua vita sia già scritta. Lei è una giovane piena di segreti che arriva a Londra per scappare da un grave pericolo. I due non potrebbero essere più diversi, eppure tra loro scatta qualcosa e l’attrazione li rende due calamite. Tuttavia, gli eventi e il passato di entrambi cercano di dividerli. Avranno un lieto fine? Per scoprirlo e per innamorarvi di Liam e Riley, non vi resta che leggere Come corde di chitarra e lasciarvi trascinare dalla penna di Anna!

 

universALiTy #endthestigma

universALiTy è una raccolta di poesia intima e sincera, che è un elogio della diversità e che insegna che la personalità di ognuno deve essere accettata e valorizzata in ogni sua forma, senza stigma e pregiudizi di sorta.

Per gridare tutti insieme #endthestigma vi proponiamo la bella introduzione dell’autrice:

Fin da piccola sentivo di voler dare uno scopo alla mia vita, un segno, seppur piccolo, positivo e concreto. Oggi mi faccio coraggio e speranza di quello scopo, capace di farmi ricercare il mio Io più profondo fino a riconoscermi in una «diversità» che andrebbe non solo accettata, ma anche integrata, rispettata con la giusta luce in modo tale da divenire uguaglianza, senza «stigmatizzazione».

Ognuno ha una sua personale identità che, se rispettata, può arenare margini e creare connessioni.

Si è soliti applaudire a personalità «differenti» solo in termini di storicità, ma io credo che gli stessi applausi aiuterebbero chi, come me, «si sente diverso da sempre» a trasformare sofferenza in speranza, incoraggiando a prendere consapevolezza di una bellezza paritaria in un Mondo al quale tutti apparteniamo.

Il mio scopo mi ha portato qui, con la volontà di abbattere schemi disgreganti così che tutti possano sentirsi parte di un tutto, un passo verso un’integrazione reale, una connessione vera e una comprensione umana più profonda che non releghi persone a termini come «disturbi» e «differenze».

Credo al cambiamento verso un’uguaglianza che ancora non è totale, che ancora nasconde e non illumina.

Questa è la mia rivoluzione contro lo «human stigma». Ci sono arrivata con estrema sofferenza interna combattuta con sorriso reale, ho avuto la fortuna di essere riuscita a vivere me stessa e il mio Io con positività. Sogno che questa positività si possa trasmettere e possa aiutare altri, oltre me. Siamo quello che siamo. Un essere umano.

Borderline Personality makes my lovely reality!

Carlotta Camilla Polly

Intervista all’autore Nicola Brunialti

In occasione della Giornata della Memoria, Sperling & Kupfer porta in libreria dal 25 gennaio il nuovo romanzo di Nicola Brunialti, ‘Un nome che non è il mio’.

La nostra editor Linda Poncetta ha intervistato l’autore, che ci ha raccontato il suo nuovo romanzo, aiutandoci ad affrontare tematiche ancora oggi molto importanti.

Raccontaci di cosa parla questo romanzo. Cosa ti ha portato a scriverlo? 

L’idea del libro mi è venuta passeggiando per Roma e notando quanti segni legati al nazismo riempiono ancora i muri della mia città, soprattutto svastiche. Allora mi sono chiesto: possibile che ci siano ancora oggi, nel ventunesimo secolo, persone attratte da quel simbolo? Possibile che ci sia ancora chi trova fascinazione in una svastica? In un simbolo che si porta dietro così tanto dolore? Ho pensato che per raccontare quali orrori si nascondessero dietro alla svastica e quali nefandezze fossero state commesse all’ombra di quel segno, ci fosse bisogno di raccontare la storia di chi quegli orrori li aveva vissuti sulla propria pelle. È qui che ho pensato a Irena Sendler, l’infermiera polacca, conosciuta anche come “la Schindler di Varsavia”, che salvò dal ghetto quasi 3.000 bambini ebrei. La sua, insieme a quella dei suoi bambini, mi è sembrata la storia ideale per svelare ancora una volta quale abisso si sia raggiunto a Varsavia durante gli anni dell’occupazione nazista. Ma anche quali vette di amore, compassione e coraggio straordinario.

Come è stato immedesimarsi nei personaggi e scrivere una storia così importante e potente?

Questo libro è stato per me un lungo viaggio. Per quasi due anni ho vissuto «mentalmente» nel ghetto di Varsavia. Ed è stata un’esperienza davvero molto dura. Per scrivere di quelle vicende, per essere credibile, ho dovuto immaginare di essere lì davvero, entrare nell’animo dei miei personaggi e vivere con loro tutto ciò che man mano gli capitava nell’arco della narrazione.  Devo dire che alla fine, la “frequentazione” quotidiana con tutti i membri della famiglia Katznelson è stata così profonda che, mentre me ne stavo seduto alla mia scrivania, erano loro a raccontarmi la loro storia e non viceversa. È come se mi avessero concesso l’onore di ascoltare la loro vita e «farmi memoria viva» delle loro vicissitudini.

Cosa c’è di vero in quello che racconti?

Chiuso in casa per il lockdown dovuto all’epidemia di Covid19, mi è stato impossibile viaggiare o incontrare i testimoni diretti di quell’orrore. Però sono riuscito a parlare con alcuni discendenti di chi quelle vicende le aveva vissute davvero. E ho letto decine di libri sull’argomento specifico, dopo averne letti altrettanti sulla Shoah nel corso della mia vita; ho visto documentari, film, interviste sul web; ma soprattutto ho letto i diari di Emanuel Ringelblum, uno storico polacco che invitò tutti gli abitanti del ghetto a redigere i loro personalissimi diari durante l’occupazione nazista, perché i posteri sapessero quello che il popolo ebraico stava passando. In quei diari ho trovato nomi, vicende, aneddoti che hanno arricchito il mio racconto della veridicità di cui aveva bisogno. È grazie ai racconti di quelle persone, ai loro diari e alle loro testimonianze se questo libro è potuto nascere. È grazie al dolore dei loro ricordi che queste pagine hanno preso vita nella maniera più «verosimile» possibile. Per questo posso asserire che i miei personaggi sono solo “accidentalmente” immaginari.

A cambiare la vita del piccolo Yanusz è un’infermiera polacca, un personaggio per il quale ti sei ispirato a Irena Sendler. Chi era? Come hai conosciuto la sua storia?

Qualche anno fa ho letto su un quotidiano di questa donna polacca candidata al Nobel per la Pace, era il 2007. Purtroppo quell’anno le fu preferito Al Gore. Irena fu davvero un’eroina che grazie al suo lavoro come infermiera e assistente sociale riuscì a far uscire i piccoli ebrei dal ghetto di Varsavia, portandoli in salvo nella parte ariana della città. Questo anche grazie alla sua appartenenza alla Zegota, un’organizzazione clandestina che aveva proprio lo scopo di aiutare i cittadini ebrei di Varsavia. Proprio grazie alla Zegota Irena riuscì a ottenere centinaia di documenti falsi per i piccoli fuggitivi e l’aiuto fondamentale di complici sia per farli fuggire dal ghetto, sia per ospitarli finché non venivano affidati a famiglie compiacenti che li nascondevano come orfani di guerra. O istituti religiosi cattolici che li ospitarono, prendendosi cura di loro, fino alla fine dell’occupazione nazista.

In che modo, secondo te, la Giornata della Memoria può aiutare le nuove generazioni? Quale ruolo devono avere gli adulti e la scuola?

Sono convinto che mai come oggi sia necessario farci noi memoria vivente di quel passato, soprattutto adesso che i protagonisti diretti stanno scomparendo e l’antisemitismo ritorna in maniera ancora più feroce nella cronaca quotidiana di tutto il mondo, pur non essendo mai scomparso del tutto, purtroppo. C’è bisogno che i ragazzi conoscano quelle storie, che immaginino le vite di quei corpi ammassati uno sull’altro fuori da un capanno in uno dei campi di concentramento che gli vengono mostrati soprattutto in occasione della Giornata della Memoria. C’è bisogno di tirare fuori dai gelidi numeri dell’Olocausto le speranze, le paure e i sentimenti di un popolo intero. E provare, per una volta, a metterci in quei panni. Provare a essere loro. In questo la scuola e gli adulti hanno un ruolo fondamentale. Perché entrambi svolgono il compito di educatori. E credo che non ci sia niente di più importante che educare all’empatia, al rispetto e alla comprensione per ridare dignità a tutte quelle persone che non possono più chiederla con la loro voce. Oggi tocca a noi essere quella voce.

 

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