9 cose che potresti non sapere sul matrimonio – di Taylor Jenkins Reid

9 cose che potresti non sapere sul matrimonio

Di Taylor Jenkins Reid – articolo comparso sul blog dell’Huffington Post il 24 agosto 2014.

Quando mi sono messa in testa di scrivere un libro sul matrimonio, mi sono resa conto che conoscevo davvero poco sull’istituzione in sé. Sono sposata da un po’ ormai, perciò pensavo di sapere una cosa o due sull’argomento. Ma la verità è che molti di noi non sono molto informati e non sanno quasi nulla della sua storia, di come è cambiato e del ruolo che ha assunto nelle varie culture.

Perciò, prima di sedermi e mettere la penna sul foglio per iniziare Ti lascio per non perderti – è solo un modo figurato per dire che ho acceso il computer –, ho fatto un po’ di ricerche su questo contratto, desiderato da alcuni, diventato realtà per altri e odiato da altri ancora.

1) I primi matrimoni regolarmente registrati della storia sono avvenuti nel 2000 a.C., in Mesopotamia. Il loro scopo era soprattutto quello di preservare il potere, ottenere nuove terre e fornire eredi. Va da sé che la monogamia, la poligamia, le unità famigliari e le relazioni romantiche esistevano anche prima di questa data.

2) Fino all’Illuminismo, sposarsi per amore era un’idea da romanzo. Anzi, prima di allora, l’amore tra marito e moglie era considerato inappropriato in alcune culture e detrimento per l’unione in altre; si riteneva, infatti, che l’amore andasse cercato al di fuori del matrimonio. Il matrimonio romantico, ossia quello che ha l’amore come unico movente, è diventato d’uso comune soltanto dopo la Rivoluzione Industriale, quando gli uomini hanno iniziato a guadagnare abbastanza per conto loro da essere in grado di rifiutare la sposa scelta dai genitori.

3) Nelle società occidentali, l’abito bianco è entrato in voga solo in epoca vittoriana. La regina Vittoria ne ha indossato uno quando ha sposato il principe Alberto. La foto del giorno più bello della regina è stata pubblicata da tutti i giornali e ha inaugurato la tendenza delle donne a vestirsi di bianco. Tendenza, questa, che non è mai arrivata in Oriente: in Cina e in India ci si sposa in rosso, colore che per tradizione indica la buona sorte.

4) Gretna Green, un paesino della Scozia, deve la sua fama alle fughe d’amore, dopo il Marriage Act del 1753, che interessò Inghilterra e Galles e stabilì un numero di requisiti fondamentali per il matrimonio, come il coinvolgimento della chiesa e la licenza di matrimonio. Pertanto, le coppie scappavano a sposarsi nella città scozzese più vicina, solitamente Gretna Green, dove le leggi erano meno rigide. Nell’Ottocento, il numero delle fughe d’amore su territorio scozzese calò in seguito all’introduzione dell’obbligo per i futuri sposi di un soggiorno di ventuno giorni in loco; da quando quest’obbligo fu tolto nel 1977, la Scozia è tornata a essere la meta prediletta per i fidanzati e ospita circa 5000 matrimoni l’anno.

5) Qualsiasi coppia americana sposata da 50 anni o più può ricevere un biglietto d’auguri per l’anniversario dal Presidente e dalla First Lady degli Stati Uniti. La richiesta può essere presentata tramite i propri legali o scrivendo direttamente alla Casa Bianca. Si raccomanda di muoversi con mesi di anticipo.

6) I Paesi Bassi sono stati il primo Paese nel mondo ad approvare matrimoni tra persone dello stesso sesso.

7) La coppia di sposi più longeva di sempre è quello di Karam e Katari Chand, che sono sposati da 90 anni. Karam, il marito, ha 110 anni, e Katari, la moglie, ne ha 103. Si sono sposati in India nel 1925. Il matrimonio che è durato più a lungo, però, è quello di Daniel e Susan Bakeman: si sono sposati a New York il 29 agosto del 1772 e sono stati sposati per più di 91 anni.

8) Le Filippine e lo Stato del Vaticano sono gli unici due Paesi che non permettono il divorzio. Gli ultimi Paesi in cui il divorzio è stato introdotto sono l’Italia nel 1970, il Brasile nel 1977, la Spagna nel 1981, l’Irlanda nel 1996, il Cile nel 2004 e Malta nel 2011.

9) Secondo uno studio condotto dall’Università di Chicago, più di un terzo dei matrimoni tra il 2005 e il 2012 è stato celebrato tra persone che si sono conosciute online. Lo studio ha dimostrato che queste coppie hanno matrimoni più lunghi e più felici.

Certamente, il matrimonio è un’istituzione con una storia millenaria ed è cambiato molto nel corso del tempo. Quel che ho capito facendo le mie ricerche è che gli approcci al matrimonio sono infiniti, e ci sono tante opinioni sul matrimonio quante teste sul pianeta.

Il che, per me, è un’ottima notizia, perché significa che ci saranno sempre cose da scoprire e libri da scrivere sull’argomento.

Io, me e Winslow – di Alessandro Bongiorni

Il mio rapporto con Don Winslow è iniziato in modo molto romantico. O almeno, io la vedo così.

Sei anni fa entrai alla Libreria del Corso di corso San Gottardo a Milano (che adesso, purtroppo, ha chiuso i battenti per lasciare spazio a una catena di dentisti) e mi rivolsi ad Alice, la libraia. Le domandai: «Cosa mi fai leggere?».

Lei, che nel corso degli anni aveva imparato a conoscermi, si diresse sicura verso lo scaffale di destra. Tornò poco dopo con due libri: L’inverno di Frankie Machine e Il potere del cane. Nel dubbio, li presi entrambi.

Qualche giorno dopo iniziai L’inverno di Frankie Machine. Quando lo finii, feci quello che faccio ogni volta che finisco un libro che ho amato particolarmente: niente.

Nel senso che per un po’ non leggo più niente. Ho bisogno di continuare a pensare a quel libro.

Nel 2010 ero alle prese col mio secondo romanzo, avevo un piccolo editore senza distribuzione e andavo in giro per librerie con in spalla uno zaino bordeaux (l’ho ancora, anche se adesso il bordeaux tende al nero) a proporre il mio precedente romanzo «da tenere in conto deposito». Tra un «no» e un «nì», successe qualcos’altro: arrivò l’estate, andai in Sardegna e mi portai dietro Il potere del cane. Divorai le sue 715 pagine in soli quattro giorni. Un paio di pomeriggi evitai perfino di andare in spiaggia perché questo avrebbe comportato l’interruzione – seppur momentaneamente – della lettura, e io da quel libro non mi ci volevo staccare. Non potevo!

C’erano Art Keller, i Barrera, Antonio Ramos, Nora Roberts, Sean Callan, padre Juan Parada, Sal Scachi, el Tiburon, le guerre tra narcos. Come facevo a mollare tutto così?

Quell’estate sancì definitivamente una cosa: nel mio modo di intendere la letteratura sarebbe esistito un prima de Il potere del cane e un dopo Il potere del cane. E non si tratta di copiare, o di scimmiottare. Niente affatto. Si tratta di capire quale direzione si vuole prendere. Cosa si vuole fare da grandi.

Io lo capii davvero nell’estate del 2010.

Ecco perché due anni fa, quando venni a sapere che “il vecchio Don” avrebbe presentato Missing. New York alla Feltrinelli di piazza Piemonte, a Milano, non potei fare a meno di andare ad ascoltarlo. L’incontro, poi moderato – bene – da Fabio Volo, sarebbe iniziato alle 18.00. Neanche a dirlo, alle 16.30 ero lì, in prima fila dopo gli alti papaveri (okay, quindi in terza fila…) ad aspettare Winslow.

Maledizione, neanche le teenager con i The Kolors o gli One Direction (postilla: la musica è morta).

La foto che vedete in questa pagina – quella in cui ho una faccia che… ma lasciamo stare – l’ho fatta al volo, mentre la folla mi spingeva da dietro reclamando la tanto agognata dedica.

To Alessandro,

Don Winslow.

È stato bello incontrarlo.

 

Non fidatevi di noi

Adesso che il libro è stampato, devo assolutamente ricordarmi di portarne una copia al mio amico gommista.

Perché tutto è iniziato dal gommista, un sabato mattina di circa un anno fa.

Andare dal gommista a fare il cambio inverno/estate (e viceversa) è una delle cose più noiose del mondo. Devi per forza stare lì, a guardare gli altri lavorare. Insopportabile. Per cui mi ero portato il mio scalcinatissimo ipad, ormai sul punto di esplodere a causa del numero di pdf che reclamavano (uso totalmente improprio del tempo al passato…) di essere letti.

E come spesso capita, almeno a me, anche in quell’occasione per scegliere cosa leggere non ho seguito un ordine cronologico, del tipo “prima leggo i libri che aspettano da più tempo”; sarebbe forse più corretto, fare così, invece quasi sempre si finisce per andare a istinto, un po’ “a minchia di cane”, come direbbe Isidoro Meli, appunto. E quella mattina decisi – senza un particolare motivo – di cominciare a leggere un dattiloscritto che avevo ricevuto il giorno prima.

 

Mezz’ora dopo, più o meno, il gommista, che fortunatamente conosco da molti anni, ha legittimamente sbroccato per il fatto che, mentre lui lavorava e faticava di sabato mattina, io stavo lì seduto in officina ridendo sguiatamente. E infatti è intervenuto: “mi spieghi che cazzo c’hai da ridere così?”.

Ricordo di essere stato in imbarazzo. Rispondere “sto leggendo un libro sulla mafia” non mi sembrava appropriato. Di solito, leggendo di mafia, non si ride. Si assume un’aria seriosa, compunta, partecipe. Per cui ho balbettato qualcosa di sconnesso, e mi sono rimesso a leggere, cercando, peraltro senza riuscirci, di trattenermi un po’ (e anche all’amico gommista ho fatto il test: per che cosa sta LTPDM? Non ha saputo rispondere).

Ma è proprio per questo, che siamo arrivati ad oggi, e ad essere felici ed entusiasti di aver pubblicato “La mafia mi rende nervoso”, opera prima di Isidoro Meli. Perché Meli è riuscito a scrivere un romanzo divertente e appassionante, e nello stesso tempo a parlare davvero di mafia. Non è semplice, credetemi. È noto che è molto più facile far piangere, che far ridere, tanto più quando si affrontano argomenti di questo tipo.

E non c’è solo questo aspetto, a rendere “La mafia mi rende nervoso” un libro davvero originale e interessante. Non è solo perché si ride.

C’è anche il fatto che i personaggi, i punti di vista, gli ambienti, le situazioni, il tono, i riferimenti culturali, insomma tutto in questo romanzo è tanto spiazzante quanto credibile e perfettamente risolto da un punto di vista narrativo. Non ci si può non appassionare alla vicenda; non ci si può non affezionare a Tommaso Traina, a questo ragazzo sfortunato e profondamente buono; non si può non provare tenerezza verso Betsie tossica, e non si riesce nemmeno a non provare un po’ di simpatia verso quell’inesorabile minchione che è Ciccio, il fratello di Tommaso. E non si può non fermarsi a riflettere sul fatto che Meli, descrivendo il mondo della mafia e dei mafiosi nella sua “umanità”, ne ha restituito un ritratto davvero efficace.

 

Sì, lo so che gli editori sono i meno indicati a parlare dei libri che pubblicano (ma me l’hanno chiesto quelli del marketing, mica potevo dire di no…); lo so che giustamente non vi fidate. E avete ragione. Non fidatevi di me, e nemmeno di tutti quelli che il romanzo l’hanno già letto e apprezzato, a partire da Maurizio De Giovanni. Non fidatevi di nessuno. Leggete “La mafia mi rende nervoso”, e poi fidatevi di voi.

 

Letture d’autore #1: Raffaella Romagnolo legge LA FIGLIA SBAGLIATA

Non faccio mai presentazioni senza leggere qualche pagina. Sono convinta che le uniche parole che contano stanno dentro il libro, non intorno.

Per questo ho scelto quattro passi del romanzo La figlia sbagliata e li ho registrati: le prime righe, Vittorio bambino nei ricordi della madre Ines, la ribellione di Vittorio e quella di Riccarda. Quattro assaggi, giusto per capire come suona.

Buon ascolto.

Raffaella Romagnolo

La figlia sbagliata – letture d’autore #1

Letture d’autore 4: Simone Perotti legge un brano da UN UOMO TEMPORANEO

Ecco per voi una breve audio-clip.
Un brano a settimana dal mio ultimo romanzo, Un uomo temporaneo (Frassinelli), letto dall’autore, cioè da me medesimo.

Perché, forse, nessuno come l’autore sa quale sia la musica di un testo. Ma soprattutto perché ascoltare è gesto rivoluzionario, in questa epoca di (non) vedenti.

Ogni cosa è immagine, spesso veloce, incalzante. Ma qui, come dice la polizia sulla scena del crimine, non c’è niente da vedere. Semmai, da immaginare.

Niente come le parole di una storia possono suscitare immaginazione.
Aguzzate le orecchie. Provate a sentire.

Buon ascolto.

Simone Perotti

Le stanze dello scirocco

Le prime parole sono venute fuori all’improvviso, vergate sul mio taccuino con una penna che si rifiutava di scrivere, tra Scilla e Cariddi, a bordo di un traghetto che solcava quel breve tratto di mare che ogni mio conterraneo impara a conoscere sin da bambino.

Ho amato Le stanze dello scirocco sin da quell’incipit, che non ho mai cambiato.

L’ho amato mentre camminavo per le strade di Palermo, in cerca di qualcosa che neppure io sapevo bene cos’era, e studiavo quella città che ho sempre sentito mia nonostante non lo sia mai stata. E quando rintracciavo una per una tutte le persone che avrebbero potuto aiutarmi a ricostruire l’ambiente e i luoghi che mi avevano ispirato, e a capire quel momento storico che tanto mi attraeva.

L’ho amato quando ho sentito tra le sue pagine il profumo della Sicilia.

                                                                                                                          Cristina Cassar Scalia

L’editor intervista Niccolò Zancan

Intervista a NICCOLÒ ZANCAN sul romanzo TI MANDO UN BACIO

Quello del rapporto genitori e figli è un tema che tocca la sensibilità di tutti e che è stato trattato in molte chiavi diverse. Cosa ha spinto te a scriverne?

Per il mio giornale mi sono occupato a lungo della crisi. Ho visto comparire alle mense sociali dei miei coetanei, con le camicie stazzonate e il beauty in mano. Padri separati che passavano le notti in auto, in qualche cantina, sul divano di un amico. Erano lì – alla Caritas – per la prima volta. Mangiavano e si lavavano i denti, terrorizzati dall’idea di essere riconosciuti da qualcuno. Più di tutto, mi ha colpito pensare a quanto questo tipo solitudine – questa mancanza di futuro – stesse cambiando i nostri cuori. La crisi tiene insieme matrimoni finiti, perché non ci sono i soldi per due affitti. Costringe uomini di cinquant’anni a tornare a vivere a casa dalla mamma. Toglie ai padri l’autorevolezza, perché è difficile essere autorevoli quando si perde fiducia in se stessi.
 
Ti mando un bacio è un libro che parla di noi o esplora un terreno che molti di noi non conoscono?

Sono andato a conoscere alcuni padri separati nelle frontiere più estreme. Associazioni, case comunali, bacheche digitali: posti permeati dal dolore, dalla frustrazione e anche dall’odio, purtroppo. Ma poi ho deciso di fare un passo indietro, volevo cercare di raccontare una sofferenza meno acuta, quella che non sfocia nella cronaca nera di cui sono pieni i giornali. I protagonisti di Ti mando un bacio sono uomini normali e perdenti, nel senso letterale del termine: perdono i pezzi. Perdono anche l’amor proprio. Uomini sull’orlo di una crisi di nervi, ma che ancora si battono per non arrendersi. Li ho spogliati di ogni pudore per cercare di raccontarli così come sono, davvero, quando il mondo non li vede.
 
Quella dei padri separati è una condizione in cui l’amore rischia di
essere sopraffatto dalla rabbia, dal rancore. Qual è il sentimento che prevale nel tuo romanzo?

Vorrei che prevalesse la dolcezza. La dolcezza nel disastro. La malinconia per i baci non dati. Se è vero che nessuno si salva da solo, e io ci credo profondamente, i quattro protagonisti del romanzo sono amici. Questa è la loro fortuna. Si aiutano. Parlano dei figli. Hanno ancora dei piani, per quanto improbabili… E poi incrociano due donne meravigliose.

Che ruolo hanno le donne in questa storia?

Anche Ingrid e Chiara sono in cerca di un’altra vita, di una seconda possibilità, in qualche modo. Ma loro sono il motore del romanzo. Nel senso che prendono le decisioni, spostano gli equilibri. Si mettono in gioco. Ingrid e Chiara affrontano il dolore, invece che rifuggirlo. Se posso permettermi una caduta di stile, io le amo molto entrambe.

Qual è l’immagine a cui sei più affezionato, in questo libro?

Forse quella in cui Dan, dopo aver ricevuto un prestito dal suo amico Sergio, va a prendere la figlia Emma. Insieme vanno a fare canottaggio sul Po, poi a mangiare un gelato in centro. Una giornata normale. Ma con quella complicità che si può creare solo facendo qualcosa insieme. Mi piacciono le parole che si scambiano, l’impaccio che cercano di nascondere. E poi, se è vero che i soldi non fanno la felicità, di sicuro essere senza stipendio è una tragedia. Quello è il momento del riscatto di Dan. Tutti ci specchiamo negli occhi dei nostri figli. Quello è il momento in cui Dan, per un attimo e finalmente, riesce ad essere orgoglioso di se stesso.

Child 44 – Il bambino numero 44 IL FILM

Come scovare un killer in una società che ne rifiuta l’esistenza?

Questo è l’interrogativo che percorre le vicende raccontate in Child 44 – Il bambino numero 44, il thriller a sfondo politico di Daniel Espinosa, tratto dal romanzo bestseller di Tom Rob Smith.

L’assassino di cui si parla nel film, e nel romanzo, è Andrej Čikatilo, il serial killer russo che a partire dalla metà degli anni ’70 uccise più di 53 persone, in particolare bambini, gettando l’intera nazione nell’angoscia.

Nel romanzo, però, Tom Rob Smith decide di retrodatare le vicende del serial killer di Rostov al secondo dopoguerra, restituendo un affresco delle contraddizioni della società stalinista. Il risultato è un bestseller che ha ottenuto forti consensi anche dalla critica, destando da subito l’interesse di Ridley Scott, che ha deciso di produrre il film dal 30 aprile nelle nostre sale.

Il protagonista è l’agente della polizia sovietica Leo Demidov, interpretato da Tom Hardy, che perde la sua posizione di prestigio quando rifiuta di denunciare sua moglie Raisa, Noomi Rapace, accusata di tradimento contro lo Stato. I due sono quindi costretti a lasciare Mosca e a trasferirsi nella cittadina di Volsk, tetro avamposto militare. Qui Leo incontra il generale Nesterov, interpretato magistralmente da Gary Oldman, e con lui inizia a indagare sulle morti sospette di alcuni bambini, fino a quel momento catalogate dalla polizia di stato come decessi accidentali.

La ricerca del killer, quindi, diventa in Child 44 il pretesto per raccontare l’atmosfera di angoscia e sospetto generata dagli organi del regime, primo tra tutti l’MGB, la polizia segreta in cui lavorano Leo e il suo rivale, Vasili (Joel Kinnaman). Una società, quella stalinista, in cui ognuno poteva essere accusato di tradimento contro il regime e in cui il crimine comune veniva negato, perché contrastava l’immagine di perfezione e moralità che il regime voleva dare delle società comuniste. Il film, proprio per il modo in cui racconta il periodo stalinista, è stato ritirato dalle sale in Russia per volontà del ministro della cultura, perché la sua proiezione è stata considerata «inammissibile alla vigilia del 70° anniversario della vittoria sovietica sul Nazismo».

Ma la ricerca del serial killer permette al regista di approfondire anche la relazione tra i due protagonisti, Leo e Raisa, costretti a lasciare la vita agiata nella capitale e a rinunciare ai privilegi della posizione di Leo. La nuova condizione, la paura del regime e il sospetto faranno sì che i due, inizialmente molto distanti, si avvicinino scoprendosi davvero una coppia.

In Child 44 Daniel Espinosa, già noto al pubblico per Safe House – Nessuno è al sicuro e Snabba Cash, si dimostra un regista capace di spaziare tra diversi generi cinematografici e di realizzare un film narrativamente complesso, dosando in modo sapiente gli elementi thriller e action, gli aspetti sentimentali e la ricostruzione storico-politica.

A rendere il film ancora più apprezzabile concorre il cast, uno dei punti forza della pellicola, grazie alle interpretazioni di attori come Gary Oldman, Tom Hardy, Noomi Rapace, fino ai cattivi e intensi Joel Kinnaman, Vincent Cassel e Paddy Considine.

A spiccare in particolare è Gary Oldman, che si conferma un ottimo interprete capace di calarsi perfettamente nel ruolo di un generale rassegnato all’esilio eppure disposto ancora a credere in un possibile riscatto. Ma anche Tom Hardy e Noomi Rapace, che con la loro interpretazione restituiscono in modo sempre realistico sentimenti e disposizioni d’animo molto diversi, dal coraggio alla rabbia, dalla paura fino, in alcuni casi, alla meschinità e all’opportunismo.

Tu, io e tutto il tempo del mondo – Forever, interrupted

Tu io e tutto il tempo del mondo (titolo originale Forever, Interrupted) diventerà un filme Dakota Johnson darà il volto alla protagonista del romanzo.

Elsie e Ben si sono conosciuti il primo giorno dell’anno, sotto una pioggia scrosciante. Si innamorati subito e sposati in pochissimo tempo. E non avrebbe potuto essere altrimenti: Ben è un uomo dolce, pieno di vita e di attenzioni, appassionato di libri. Un uomo perfetto.
Ma Ben muore in un incidente dopo pochi giorni di matrimonio: Elsie trova sul marciapiede i resti dei cereali colorati che gii aveva chiesto di comprare, una bicicletta che riconosce e una sirena che non promette nulla di buono.
Inizia un calvario personale, una ricerca di stabilità e una lotta per accettare una situazione nuova, quella di giovaen vedova. Ma non riesce a farsene una ragione.
Nemmeno la madre di Ben ci riesce, anche perché ignorava che nella vita del figlio fosse arrivata Elsie.

Tu, io e tutto il tempo del mondo vi farà piangere, perché è una storia d’amore nel senso più profondo della parola “amore”.
Ma è anche una storia di solidarietà, capace di raccontare l’amicizia tra donne, la forza che occorre non nel superare o affrontare il dolore, ma nell’imparare a conviverci. Vi farà piangere, ma poi sorridere, e poi riflettere, come ogni buon libro.

Consigliato a chi:
– ama vedere i film o leggere sul divano, sotto un plaid sgranocchiando cereali
– crede nell’amore a prima vista
– è riuscito a diventare amico della propria suocere

Da leggere con caramelle gelée a portata di mano. Servono solo quelle, ma tante.

L’editor intervista Maria Daniela Raineri per il suo nuovo romanzo

Lara: Se dovessi descrivere il tuo romanzo in poche righe, che parole chiave useresti?

Maria Daniela: Direi che è una storia d’amore tra una ragazza e un ragazzo, la storia di una famiglia che cambia e cresce attraverso gli anni, di un’amicizia tra due donne dai caratteri opposti e dell’amore complicato tra un padre e una figlia. Ma più di tutto direi che è una storia sull’imperfezione dei sentimenti.

“Un lungo istante meraviglioso” è anche – non solo – una bellissima storia d’amore. Allora ti tocca la domanda del secolo: innamorarsi a quindici anni è così tanto diverso da quando accade in età adulta?

No. Quando ci innamoriamo abbiamo sempre quindici anni. Sarà per quello che continuiamo a farlo anche da grandi. In realtà, credo che la grossa differenza sia una questione di proporzioni, di “peso”. A quindici anni l’amore è tutto. Ti investe come un tram, ti marchia a fuoco, segna la tua personalità e le scelte future. Assorbe ogni energia. In età adulta tende a ridimensionarsi, diventa una delle  componenti dell’esistenza, insieme alla famiglia, al lavoro e alle altre esperienze che fondano la tua identità. Lo carichi meno di aspettative. Per questo perde un po’ di magia ma diventa più solido, reale, benefico. Poi, certo, se a quel punto arriva una nuova “tranvata”, ecco che ricomincia tutto da capo, e allora davvero torni ad avere quindici anni anche se ne hai quaranta, il che può essere molto romantico e vitalizzante, ma anche distruttivo e disastroso. 

Laura, la tua protagonista, a un certo punto dice: “La mia vita è tutta un piano B”. L’ho trovato molto bello, soprattutto se rapportato a una società che predica l’importanza di raggiungere i propri obiettivi. Rivendichi la dignità del piano B?

Sì! Le persone-caterpillar, quelle che vanno dritte verso l’obiettivo senza guardare in faccia nessuno, mi insospettiscono sempre un po’ e di solito mi stanno antipatiche. Sto diventando sempre più insofferente verso quest’idea che nella vita tutto si possa scegliere, che noi siamo gli unici responsabili delle cose che ci accadono e che, se qualcosa non ci succede, è solo perché non l’abbiamo desiderata abbastanza. Credo che questa visione del mondo ci faccia sentire depressi e falliti, visto che, in realtà, realizzare tutti i nostri desideri è praticamente impossibile, a prescindere da quanto ci diamo da fare. A volte, può essere complicato persino realizzarne uno o due. Perciò, evviva i piani B, i ripensamenti, i ripieghi creativi, i percorsi non previsti che ci stupiscono e ci riservano sorprese.

La musica è molto presente in questo romanzo. Con che criterio hai scelto questa colonna sonora?

Ho scritto ascoltando Radio Capital, Radio Babboleo Suono e Spotify (stupenda invenzione!), e ho inserito le canzoni che più mi ricordavano i vari periodi in cui si svolge la storia. C’è un certo squilibrio a favore dei pezzi anni ottanta, lo so, ma d’altronde questo è il destino di chi, come me e come la protagonista del libro, è stato giovane in quegli anni e se li trascinerà addosso per sempre, con quel senso di imbarazzo misto a lancinante nostalgia che forse conosciamo solo noi. 

Una strofa di una canzone che ricorre più volte, Mad World dei Tears for Fears, dice:” I sogni in cui sto morendo sono i migliori che ho avuto”. Sei d’accordo?

Abbastanza. In questo romanzo, come anche nei precedenti, quasi tutti i personaggi crescono e si evolvono grazie alle batoste e alle delusioni. Amori non ricambiati, amicizie in frantumi, tradimenti, tracolli professionali… avvenimenti negativi che però hanno il potere di farli reagire e di proiettarli in realtà nuove, con le quali forse non si sarebbero mai confrontati se avessero avuto una vita più serena. Questo vale  anche al contrario: spesso le persone che ci vogliono più bene sono quelle che ci fanno più male. 

Lara Giorcelli è editor della Fiction italiana per Sperling & Kupfer

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